22 dicembre 2011

Best Album 2011 by Tommie

20 Album, La solita Varietà di Generi
So già che ho dimenticato qualcuno. E che 0f0 mi cazzìerà perché ho pubblicato qualche pezzo del '71!

Archers Of Loaf - Icky Mettle
Art Brut - Brillant! Tragic!
Beastie Boys - Hot Sauce Committee Part 2
Beirut - The rip Tide
Bibio - Mind Bokeh
Arabia Mountain - Black Lips
Black Lips - Arabia Mountain
BluePrint - Adventures In Counter Culture
Crystal Antlers - Two Way Mirror
Dan Mangan - oh Fortune
Evidence - Cats and Dogs
Firefox Ak - Color the Trees
Gable - Cute Horse Cut
Gold Panda - Companion
James Blake - James Blake
Panda Bear - Tomboy
Shabbazz Palaces - Black Up
the Black Keys - el Camino
Tune Yards - Whokill
Tyler the Creator - Goblin

20 dicembre 2011

Best Albums 2011 by OfO

Anna Calvi – Anna Calvi
Akron/Family - s/t ii_ the cosmic birth and journey of
Charlie Parr And The Black Twig Pickers - Glory In The Meeting House
J Mascis - Several Shades Of Why
I Cani - Il Sorprendente Album D'esordio Dei Cani
Gazebo Penguins - Legna
Ex Otago – Mezze Stagioni
Gable – Cute Horse Cut
Tune Yards - WhoKill
The Drums - Portamento
St. Vincent- Strange Mercy
Kimya Dawson - Thunder Thighs
Dan Mangan – Oh Fortune
Mariposa – Semmai Semiplay
Slow Club - Paradise
Paolo Benvegnù - Hermann
Operation Id - Legs
True Widow - As High As the Highest Heavens and from the Center to the Circumference of the Earth
WhoMadeWho – Knee Deep
Crash of Rhinos - Distal

23 agosto 2011

E SE LO DICE VOGUE...


WU LYF

"Go Tell Fire To The Mountain" (Lyf) 2011

La loro musica è "Heavy pop", sono quattro ragazzetti di Manchester (anche se la formazione è mutevole e spesso si ritrovano in sei sul palco) che dicono di voler essere molto più di una band e ci stanno anche riuscendo. Il disco d'esordio del collettivo Go Tell Fire To The Mountain è autoprodotto ed è stato registrato in una chiesa sconsacrata, gli intenti del World Unite! Lucifer Youth Foundation (nome del gruppo per esteso) sono i seguenti "Miriamo a unire più persone, miriamo a inondarvi di batterie dure e ritmate, di voci da vecchio cantautore americano ubriaco in una chiesa, chitarre e bassi penetranti, vi penetreremo nelle orecchie. Non ci accontentiamo di passare sulle radio di tutto il mondo."

Fatto sta che di curiosità attorno alla band se n'è creata molta, perchè si fanno vedere poco, zero interviste e gli unici che pagano il doppio ai loro concerti sono giornalisti e discografici. Ma veniamo alla musica, per cominciare organo a gò-gò, strumento che non mi hamai fatto impazzire e quindi la prima stranezza sta proprio nell'essermi appassionata così tanto a un disco dissipato di hammond. Il tutto diventa ancora più curioso se parliamo del risultato che ne viene fuori associando il più sacro degli strumenti (e del luogo di registrazione) alla più sfrontata delle attitudini ossia la hc. Di core in questo esordio ce n'è a esagerare, gli arpeggini post-rock di Evans Kati vanno dritti ai cori dei più romantici poi c'è il cantato, spesso a due voci, dissacrante, maleducato e nevrotico, uno sfogo che a tratti ci porta indietro agli At the Drive-in di "In casino out" o al presente dei nostrani Fine Before you Came.

Inni semplicemente melodici, come il pezzo che apre il disco ("LYF"), ballate sacre ("Spitting Blood") e mini suite ("Concrete Gold" e "Heavy Pop") fanno di questo disco uno degli esordi più interessanti dell'anno. Se parlare di pace e di fratellanza e non abbassare la testa alle leggi dell’industria musicale è hype,... la moda sta cambiando e io non me ne ero accorta.

29/30 Fox

4 luglio 2011

Tra il serio e il faceto


JOHN WIESE + MATMOS
Roma, Circolo degli Artisti, 23 maggio
La serata comincia con il set granguignolesco di John Wiese, collaboratore fra gli altri di Sunn O))), Wolf Eyes, Merzbow. E’ subito un rimuginare di suoni e rumori sciaborditi e sconquassanti. Esperimenti di musica(?) sensiorale di provenienza harsch, informità di rumori monocromi e scurissimi, sorta di industrial bulimico che mangia se stesso e viene rigettato a noi. Il gioco è bello finché dura poco e 15 minuti a disposizione di Wiese sono più che sufficienti per farci entrare e uscire da quest’incubo sonoro che non lascia prede. La speranza che il duo di San Francisco sia più tenero nei nostri confronti è concretizzata quando i due entrano e si piazzano dietro la propria superconsole: Drew Daniel è vestito come uno straccione metallaro anni ’80 e di dirimpetto Martin Schmidt si presenta con un completino very chic da businessman (una sorta di parodia che simboleggiare la doppia anima ludico-seriosa del combo). Chiedendoci di fare silenzio, tra colpi a triangolo e campanacci, le luci si abbassano ed ha inizio il rito. I moog diventano spettrali, Drew mima balletti ascetici in piena trance performativa e nel frattempo entrano sul palco 8 personaggi con tanto di occhiali oscuranti e cuffie, che si posizionano dietro ad altrettanti microfoni. C’è chi solfeggia, chi gorgheggia, chi parlotta e chi canticchia - ovviamente ognuno rigorosamente per i fatti suoi – e si crea una specie di armonia innodica e ordinata coadiuvata dagli organetti distesi e oscuri messi in campo dai Matmos. Il pezzo finisce in una palingenesi di pace e quiete che contraddice il confusionario inizio. Alla fine sapremo che gli 8 elementi sono stati trovati a Roma il giorno stesso e le prove si sono svolte direttamente sotto i nostri occhi!  La seconda fase del live si apre con una canzone(?) che potrebbe stare benissimo in Supreme Balloon (anche se in quel disco non c’è): il moog e il touch sono i medesimi, le ritmiche pure. Sul filo tra il ballabile e il contemplativo lo show prende, piano piano, piaghe lisergiche (anche) per merito della psichedelia disegnata dal chitarrista che accompagna il duo, il video tutto pasta e colori sullo sfondo fa il resto. A sorpresa spunta fuori quella Treasure suonata nell’album Treausure State insieme ai So Percussion che live diventata un pezzo tropicálista; oggetti vari, rumori da giungla e schiamazzi scimmieschi fanno da corollario, trasformando la dolcezza del carillion iniziale in puro caos ferino. Da Supreme Balloon (l’ultimo disco ufficiale) i Matmos ci propongono Rainbow Flag. Il florilegio di colori e di felicità sbarazzina del refrain implode in momenti dark-noise (come un allucinogeno che ad un certo momento te la fa prendere male) per concludersi in una coda cow-folk, specie di parodia western cantata dai due protagonisti in salsa punk. Martin ci fa sapere che era una cover dei Buzzcocks (ci fidiamo?) mentre Drew (che parla un ottimo italiano) ci racconta una barzelletta abbastanza oscena. Tra momenti pansonichiani di puro delirio glitch (ecco che si rivede sulle scene Wiese), colte sperimentazioni in fieri e momenti dance-pop, il live si scioglie in un delirio di luci e ombre che sono archetipo delle dualità intrinseche nella musica dei Matmos. Due geni, seri e faceti, che fondamentalmente non sanno se prendersi sul serio o meno. A noi va bene cosi.
OfO

4 giugno 2011

Sufjan sembra impazzito. Invece è un genio: cronaca del concerto dell'anno (e forse del decennio)


Sufjan Stevens, per la prima volta in Italia. E' sbarcato a Ferrara lo scorso 24 maggio, al Teatro Comunale: una cornice perfetta per lo show che ha deciso di portare in giro per il tour di "The Age od Adz". Due ore e mezzo di incanto, stupore e meraviglia. Elettronica, pop, la sua voce calda da country, navicelle spaziali, cosmonauti vestiti di fluo e gigantesche ali bianche. E monologhi infiniti in cui si è fatto conoscere meglio dal pubblico, visto che non rilascia interviste. Almeno non ha me.

Il teatro è da tutto esaurito. Il pubblico è emozionato. Ad aprire la serata, uno dei musicisti di Sufjan: DM Stith, biondo chitarrista che ha scaldato l'atmosfera con 4 pezzi folk-country alla Jeff Buckley, con qualche velo di Bowie. Notevole e bravissimo. Così, uno si aspettava un concerto da Sufjan: uno che ha cominciato qualche anno fa a dirti "Come on and feel the Illinois" e poi voleva fare un disco per ogni stato dell'America. Molti pezzi li dedica a Dio, citando versi della Bibbia. Pazzo, ma pur sempre cantautore slow country, indiefolk.


Poi, nel 2010 tira fuori questo "The Age of Adz", molti pensano che la svolta elettronica non gli sia consona. In realtà, ha sfornato un album pazzesco, curatissimo e da 10 e lode. Chissà che farà dal vivo.
Ecco, dal vivo Sufjan ci ha fatto restare a bocca aperta. Undici persone sul palco, scenografie cosmiche, videoproiezioni di fumetti spaziali, due coriste ballerine che sembrano uscite da H&M. E' un vortice di colori, di suonini elettronici e campionamenti. Sufjan e la sua band sono tutti vestiti da astronauti (o cosmonauti, se preferite la versione sovietica) con tute dai colori fluorescenti. Appena uscito (cantando "Seven Swans") ha anche delle ali attaccate dietro. Uno spettacolo degno di Georges Méliès.

Onirico, visionario, schizofrenico. proprio come Royal Robertson, figura che il musicista spiega e di cui narra la storia tra un pezzo e l'altro: un artista americano scomparso nel 1997, affetto da schizofrenia e morto in solitudine nel 1997. Disegnava strisce da comic e grafic art a sfondo cosmico, era convinto che gli alieni stessero per arrivare a bordo di un'astronave guidata da Dio. E Sufjan, a partire dal'art work e dal titolo dell'album (che è una citazione di un suo lavoro) fino alla chitarra con su scritto "Royal", si è talmente innamorato di questo personaggio che ha improntato tutto il live sul suo immaginario. Le proiezioni, infatti, sono di Robertson e l'effetto è un po' da Kraftwerk con qualche rotella fuori posto. Meraviglioso.

Il live è un crescendo di emozioni, da un palchetto di un teatro in cui di solito fanno l'opera. Nel frattempo, sta per nascere mio nipote all'ospedale Maggiore di Bologna e io non ci sto più nella pelle. Fa tutto il disco nuovo, dilatando alcuni pezzi frullandoci il cervello. Chiacchiera parecchio, spiega che in questo nuovo lavoro ha lavorato molto sul movimento e sul collegamento col ballo: via, tutti cominciano a muoversi un po' come automi flessibili, a ritmo di musica. Ogni tanto spara delle frasi di cui lui stesso ride come un bambino. Tipo: "Ogni azione ha una reazione, l'universo è in armonia e noi dobbiamo essere pronti ad integrarci con lui".

Sms di mia madre: ancora nulla, domani le faranno una flebo per indurre le contrazioni. Ok. Arriva una navicella spaziale fatta con materiali di sicuro made in China, ma molto simpatici e che rendono perfettamente il livello della produzione: in pompa magna, ma low cost. Perfetta filosofia indie, insomma. DIY o lo-fi. Quel che volete.

Una delle coriste si infila su per i palchetti, e sbuca arrampicandosi, restando in bilico e continuando a cantare. E' "Impossible soul" (il pezzo che pure sul disco dura 25 minuti),
fatta in tutte le declinazioni del power-pop, power electro. Pure col vocoder! In platea si alzano e ballano.



Escono. Rientra prima lui da solo. Fa qualche pezzo dei precedenti album, al piano e con la chitarra.

Poi, la magia. Parte "Chicago", escono palloncini colorati e il finale è un mondo sempre più fiabesco, un po' da Teletubbies, in cui è inevitabile pensare alla felicità che un concerto del genere può infonderti. Un artista come pochi ce ne sono in giro, che mette su uno spettacolo a 360 gradi, si regala al pubblico anima e corpo e pur nella sua essenza indipendente realizza qualcosa di grandissimo. E' il concerto del decennio, ne sono sicura.



Esco dal teatro, chiamo mia madre. "Le stanno facendo il cesareo d'urgenza". Si vola a Bologna, di corsa. Un po' d'ansia, chissà come andrà. A 00.44 mio nipote era già nato e io capisco che nella stessa ho assistito a due eventi indimenticabili.

Conservo il biglietto e appena cammina gli regalo "The Age of Adz". Crescerà bene.

Scheggia

29 maggio 2011

TomBoy: musica da un mondo onirico

La mano è sempre la stessa, quella che si riconosce nei tre dischi precedenti e quella che detta i ritmi del Collettivo Animale di cui è fondatore. Sto parlando di Panda Bear e del suo nuovo album Tomboy che pare fosse già stato partorito a fine 2010 ma covato fino all'attesa distribuzione avvenuta, con studiato ritardo, ad Aprile 2011. Dopo più di un mese e mezzo nasce anche questa recensione frutto della ricerca delle giuste parole necessarie per descrivere le caratteristiche di un disco incisivo, fin dalle sue prime note.
Parlavamo delle tempistiche dell'album, il primo singolo è datato addirittura 13 Luglio 2010 ed è TomBoy, il pezzo che da il nome a tutto l'album e che probabilmente rappresenta il manifesto, del disco e dello stile compositivo dello Psichedelico Polistrumentista di Baltimora. Un incedere cadenzato, scandito da un controtempo voce-campionatore che colpisce un indifeso ascoltatore che tende a concentrarsi su quelle domande che TomBoy fa a sé stesso. Niente da dire, gran pezzo, ma è tutto il disco che colpisce per maturità, ritmica e quel pizzico di calma che sa infondere senza mai annoiare o far assopire le orecchie che si attaccano assetate all'auricolare.
TomBoy il primo singolo ma anche la seconda canzone dell'album che invece inizia con You Can Count on me, psichedelia sintetica di sola batteria e voce che introduce l'ipnosi come elemento caratterizzante di questa festa fatta di meraviglia.
Subito dopo la citata TomBoy seguita da Slow Motion: ripetitività nelle voci e crescendo nella base.
Le onde del mare si fanno spazio in Surfer's Himn presentando un paesaggio vergine oltre che brutalmente rilassante che si sviluppa in un impennata non troppo intrusiva.
Con Last Night at the Jetty si raggiunge il picco dell'opera: martellante ballatona onirica che lascia puntualmente in bocca parole dal sapore amaro come quello di un sogno spezzato.
Si arriva senza fiato alla conclusione di questo quintetto, ma l'arco sintetizzato di Drone dà una nuova sferzata ancor più stordente, così come la chitarrina Alsatian Darn.
Il pianoforte che caratterizza Scheherezade non detta che la frenata finale di un disco che continua con le basi un po' più omogeneizzate e amichevoli di Friendly Bracelet e Afterburner. Si conclude con Benfica, pezzo dedicato alla squadra di quella città che ha determinato una svolta nella vita dell'artista statunitense che proprio nella città lusitana ha trovato quello "slow moving kind of place" che gli ha permesso di far maturare definitivamente la propria creatività.
Un disco importante, che ha accompagnato le mie orecchie quasi quotidianamente dal giorno della sua uscita fino a questo preciso momento.
Per digerirlo ci si mette un po' ma una volta scomposte tutte le molecole che lo costruiscono non resta che la soddisfazione di un'opera complessa ma emozionante in ogni singola nota.
Il voto è alto, così come la voglia di andare a vedere un concerto di Panda Bear non appena capiterà sotto mano.

28/30

Stefano Tommie Nucera

24 maggio 2011

Scusate Il Ritardo

North Mississippi Allstars @ Blue Note [Milano, 07.05.2011] - Prendo a prestito il titolo di un celebre film di Troisi, per giustificare il lungo lasso di tempo passato dall’esibizione dei North Mississippi Allstars al Blue Note di Milano (sabato 7 maggio) a questa mia recensione. Oltre ad impegni radiofonici (a breve arriverà un breve articolo di presentazione del programma rock che sto conducendo su una piccola emittente…) che mi lasciano poco tempo per scrivere, il problema è stato che stavolta i ragazzi del Mississippi non mi hanno convinto del tutto. E quando non sono entusiasta mi viene difficile scrivere. Alla fine mi sono deciso perché il set live dei NMA non è stato tutto da buttare e poi forse perché cerco di dimenticare che oggi avrei dovuto essere a Ferrara ad assistere al concerto di Sufjan Stevens e invece, per vari motivi, ho dovuto rinunciare.
Mi aspettavo molto dalla band dei fratelli Dickinson, visto l’eccellente concerto a cui avevo assistito a Castel San Pietro Terme (BO) il 27 maggio del 2007. Il Blue Note è un bel locale, spazioso, con un’ottima acustica, anche se l’atmosfera è un po’ fighetta e freddina: certo non il massimo per un concerto di blue-rock… Comunque grande è il mio stupore quando arrivano sul palco i due fratelli senza l’apporto del ciclopico bassista Chris Crew. Oggi il duo chitarra e batteria va di gran moda, White Stripes e Black Keys docet, ma francamente io li preferivo in tre. Soprattutto nella riproposizione delle canzoni dell’ultimo ottimo album, Keys to the Kingdom, la mancanza di Chris si è sentita eccome. Quindi non del tutto convincenti Let It Roll, Ain’t No Grave e soprattutto The Meeting (d'altronde è difficile far dimenticare il controcanto di Mavis Staples…) che fanno decisamente più bella figura nelle arrangiate versioni da studio. Le cose vanno decisamente meglio quando i nostri affrontano i classici del North Mississippi Hill Country Blues, nati per essere suonati in rustici juke joint a volte proprio con solo chitarra e batteria. E allora finalmente ci gustiamo una devastante versione di Goin’ Down South del maestro R. L. Burnside e un’energica Shake ‘Em On Down di Mississippi Fred McDowell. Divertente anche la parentesi acustica in cui i due fratelli, imbracciate le chitarre, ripropongono sonorità vicine ai set unplugged degli Allman Brothers Band. Dopo un’ ora e mezza, poco per il loro standard, Luther, alla chitarra elettrica e Cody, alla batteria, ci salutano. Un concerto con molte ombre e qualche luce, che non regge il confronto con lo splendido live act di Castel San Pietro, dove fra le alte cose suonarono per più di due ore. Dopo un po’ di ricerche in rete non sono riuscito a capire se quella a due è una formazione momentanea o una scelta definitiva. Io spero per la prima ipotesi e do un 26/30 al concerto più per la grande stima che nutro nei confronti di un eccellente chitarrista come Luther e di un ottimo batterista come Cody, che per la riuscita della serata.

Massimo Daziani

2 maggio 2011

Perle da un recente passato - Vol.3

Howe Gelb - Sno Angel Like You (Thrill Jockey, 2006)


Dintorni di Tucson, Arizona. Strade polverose, afa, quiete disturbata dal solo sfrecciare di un greyhound sulla route 66. Immaginatevi tutto questo. Immaginate uno strano personaggio bighellonare scrutando il desertico orizzonte con piglio saggio e diffidente. Immaginate di ascoltarlo strimpellare un bizzarro motivetto che trasuda country impolverato da ogni nota. Io Howe Gelb me lo sono sempre immaginato così. Chitarra in mano, un piede a terra, l’altro a spingersi sulla roulotte color alluminio rovente, a dondolarsi sulla sedia in bilico componendo motivetti da cantare appena fuori dai denti. Poi, all'improvviso, un doppio salto mortale e un atterraggio morbido e bianco: Howe ne ha fatta un’altra delle sue. Con gli stivali ingrassati ed il giubbotto di montone d’una taglia più piccola il nostro cowboy errante è andato alla ricerca di un coro gospel tra le nevi dell’Ontario. Voices of Praise Gospel Choir e Howe Gelb, il progetto ‘Sno Angel è questo. Il risultato è ineccepibile, anche se ha poco del rivoluzionario. Ma di questi tempi nessuno ha bisogno di rivoluzioni e ci facciamo bastare tutto, anche la sorpresa di trovare uno squisito amaretto dentro una scatola di cioccolatini. Dunque Howe non si redime e continua con quel vizietto di strattonare certe tradizioni musicali spingendole avanti nel nuovo millennio, ammiccando ai miei ascolti come un menestrello di corte che conosce tutti i trucchi del mestiere, ed i segreti delle cortigiane. Allora avanti col prossimo call & response irresistibilmente profanato, avanti con la prossima ballata sconnessa celestialmente accompagnata dal coro. Avanti con il prossimo tip tap da stivali con speroni, prima che venga il momento di congedarsi con un cicchetto di whiskey, a beneficio delle preziose corde vocali. Un po’ come la sigaretta dopo il sesso o il caffè dopo un abbondante pasto. Scegliete voi.

voto 28/30

Diego

25 aprile 2011

L’incoronazione della Regina di Cuori

John Grant @ Chiesa di Sant’Ambrogio [Villanova di Castenaso (BO), 19.04.2011]. Quando i Midlake si sono così innamorati delle canzoni dell’ex leader degli Czars, tanto da convincerlo a registrarle nel loro studio, suonando e producendo il suo splendido debutto solista, devono aver sentito delle versioni scarne e toccanti, simili a quelle che hanno scaldato i nostri cuori nell’inedita cornice della chiesa di S. Ambrogio a Villanova di Castenaso, paese alle porte di Bologna. E’ un John Grant emozionato e felice quello che si presenta di fronte ad una nutrita platea di suoi fans, regalando loro qualche brano degli Czars e l’intera riproposizione di Queen Of Denmark, uno dei dischi più belli del 2010 (e non solo…). Grazie anche all’aiuto di un bravo tastierista, John ha saputo commuoverci con intense versioni di Where Dreams Go To Die, Marz, TC And Honey Bear (meravigliosa), Queen Of Denmark. Uno dei momenti più coinvolgenti del concerto è stato quando Grant ha eseguito la canzone finale, Little Pink House, tratta da Goodbye, album pubblicato dagli Czars nel 2004; in questo brano, che John scrisse in memoria della sua amata nonna, è condensato tutto lo stile del nostro, fatto di melodie struggenti, cantate con voce intensa, accompagnate da note di pianoforte romantiche e malinconiche.
Durante l’esecuzione dei brani la tensione fra il pubblico è palpabile: una tensione positiva, dettata dalla consapevolezza di assistere ad uno spettacolo unico, frutto del talento di un artista vero; il silenzio è assoluto, nessuno vuole farsi sfuggire nemmeno una nota della performance di Grant. E poi, alla fine di ogni canzone, un lungo, sentito e liberatorio applauso. Dopo un’ora e mezza di concerto, che anche nelle puntuali spiegazioni del nostro si rivela un continuo flusso emozionale, John Grant ci saluta calorosamente e se ne va. Usciamo nella dolce notte primaverile, consapevoli di aver riposto bene la nostra fiducia di appassionati e già orfani di cotanta esperienza musicale. Ma non tutto è perso: ci rimane la consolazione di una manciata di suoi ottimi dischi con gli Czars e un album solista capolavoro. E non è poco in questi nostri tempi bui…

Voto: 29/30

Massimo Daziani

15 aprile 2011

Uno strano trio che si diverte

The Orb feat. David Gilmour “Metallic spheres”

Era l'estate del 1998. Dopo l'esame di maturità andai qualche giorno in vacanza a Rimini con alcuni amici. Qualche amico più grande di noi ci aveva consigliato di andare al Melody Mecca, una discoteca in cui si ballava musica afro.

Nel locale il “chimico” andava per la maggiore. Durante la serata mentre eravamo a fumare nel giardino, siamo stati avvicinati da uno strano tipo, non saprei dire quanti anni avesse, si faceva chiamare Babe, aveva ormai pochi denti e l'aria di chi ha provato ogni tipo di droga. Siamo stati a fumare con lui, a prenderlo un po' in giro e ad ascoltare i suoi strampalati racconti. Diceva di far parte di un gruppo di poche persone che a partire dalla fine degli anni '80 avevano fatto diventare famosa la Baia Imperiale, di avere a casa una discografia sconfinata di musica elettronica, tra cui “quattromila” dischi degli Orb.

Era la fine degli anni '90, gli anni del ritorno del rock duro e puro ma anche quelli in cui dall'Inghilterra erano arrivati il brit pop e lo shoegaze, la scena elettronica, l'acid jazz: l'ecstasy e la club culture avevano invaso l'Europa.

Prima di sentire quel nome uscire dalla bocca di Babe, avevo già sentito parlare degli Orb su Rock Star, ai tempi avevano pubblicato un disco dal titolo Orbus Terrarum. Non li ascoltavo allora, come non li conoscevo fino a poco tempo fa. Adesso li ritrovo in questa pubblicazione nata in collaborazione con David Gilmour, esponente e ex membro di un gruppo che forse più di molti altri ha anticipato le atmosfere, le idee e le strutture della musica elettronica. E' stato curioso sentire come si sono incontrati due stili simili per attitudine ma certo diversi per questioni anagrafiche.

Come si parla di un disco composto da due tracce rispettivamente della durata di 28'42” e di 20'12”? Come si giudica la composizione? Lo si ascolta e basta, nella sua naturalezza, anche perchè Metallic Spheres ha l'aria di una jam session, si impasta con l'aria intorno, è atmosfera. In realtà i brani non hanno strutture omogenee ma sono più simili a collage di varie composizioni: si inizia con una chitarra slide alla Matte Kudasai dei King Crimson, per andare verso un crescendo di ritimica elettronica, orizzontale, come un tappeto, su cui si distendono tastiere veramente floydiane. Poi le chitarre passano in secondo piano, per lasciare il posto alla parte ritmica su cui si inserisce un accenno di cantato e via dicendo, verso un bridge folkeggiante in finger picking, a seguito del quale la chitarra elettrica di Gilmour a suon di slide fa partire una sorta di secondo movimento, come in una composizione classica.

Ripeto, non lo si descrive, lo si ascolta, possibilmente da soli o tutt'al più in compagnia intima. Consigliato.

Voto: 29/30

Matteo Innocenti

28 marzo 2011

Good News From Dixie’s Land, parte seconda

Lucinda Williams - Blessed - Lost Highway 2011.

Ecco un diamante grezzo della Dixie’s Land: Lucinda Williams. Da più di trent’anni questa figlia del Sud ha saputo toccare le più fragili corde del nostro animo con la sua arte sonora , grazie ad un songwriting che narra di disperazione, amori, perdite, cadute e resurrezioni, con una voce indolente e sofferta che è figlia del padre di tutti i beautiful losers, Hank Williams. Questa Dixie Lady ha pubblicato uno degli album più belli della sua già gloriosa carriera, Blessed, quasi una summa della sua estetica musicale, disco in perfetto equilibrio tra tempi rock e dolenti ballate, tra spirito country e contaminazioni black. E su tutto spicca la qualità sopraffina di queste canzoni. Si parte energici con il rock di Buttercup, ci si commuove con Copenaghen, ballad che è pura emozione in forma di note, dedicata al suo manager Frank Callari, scomparso il 26 ottobre del 2007. Uno dei brani più belli dell’album è Born To Be Loved venata di blues, con un lavoro delizioso di Rami Jaffee all’organo Hammond a cui risponde in maniera sopraffina uno strepitoso Greg Leisz alla chitarra elettrica. Ma il momento più alto del disco è quella Seeing Black dedicata, in modo amorevolmente rabbioso, al grande Vic Chesnutt. La rabbia di un’amica a cui non è piaciuto per niente il modo in cui Vic se n’è andato, lasciando un grande vuoto dietro di sé (sono parole che la nostra ripete in tutte le interviste, se interpellata sull’argomento). Lucinda quando canta “ When you made the decision to get off this ride/Did you run out of places to go and hide/Did you know everybody would be surprised/When you made the decision to get off this ride” esprime il dolore di tutti gli amanti del grande Chesnutt e l’eterna, umana incapacità di accettare la morte: semplicemente da brividi. E se questo non bastasse ci pensa un incredibile Elvis Costello a chiarire definitivamente la dolorosa incredulità del testo di Lucinda con un assolo di chitarra di rara intensità. Insomma un disco consigliatissimo, da ascoltare ad occhi chiusi, per trovare la strada che ci porti fuori dal tunnel del dolore, per uscire a rivedere la luce di una possibile palingenesi. To Be Born Again.

Voto: 29/30

Josh T. Pearson – Last Of The Country Gentlemen – Mute 2011.

Storie del Sud, storie che narrano di un’ umanità in cerca di se stessa. Josh T. Pearson nel 2001 si fa conoscere come leader dei Lift To Experience, pubblicando uno splendido album, The Texas-Jerusalem Crossroads. Poi più nulla. Ecco che ricompare dieci anni dopo, con una barba che manco un patriarca e, quasi in solitario, pubblica un disco intenso ed essenziale, frutto di un songwriting fragile e crepuscolare. Un album che fa sua l’estetica musicale di Townes Van Zandt, scarnificandola però all’osso. I brani di questo disco sono lunghi, acustici, mettono a nudo i tormenti di un amore finito (come nella superba Woman, When I've Raised Hell), le passioni e i conflitti interiori del suo autore, quasi in uno stream of consciousness. A volte sono resi ancora più struggenti dalla presenza degli archi (come il violino nella meravigliosa Country Dumb) . Un disco difficile, lento, oscuro, da ascoltare con attenzione, maledettamente coraggioso nei nostri tempi veloci. E proprio per questo prezioso e memorabile.

Voto: 28.5/30


Massimo Daziani

6 marzo 2011

Good News From Dixie’s Land

Buone vibrazioni musicali arrivano dal Sud degli Stati Uniti, una terra che da sempre ci ha regalato artisti eccezionali. Dalle regioni meridionali del Nord America è nato un caleidoscopio musicale in cui troviamo il blues (dal più terrigno stile Delta, al più sofisticato stile Piedmont, passando per il corposo blues suonato nel Lone Star State), la proteiforme tradizione sonora di New Orleans, la country music, il sapido soul di scuola Stax (via Muscle Shoals), la magnifica tradizione cantautoriale texana che, prendendo ispirazione dalla vena più malinconica dell’immenso Hank Williams, mischia folk, country, blues e rock (pensiamo a nomi importanti come Guy Clark, Townes Van Zandt, Steve Earl), il southern rock dei padri fondatori Allman Brothers Band e Lynyrd Skynyrd fino ad arrivare, in tempi più recenti, alla magnifica avventura musicale dei Black Crowes.

Aaron Neville - I Know I've Been Changed - Tell It Records 2010.

Quando a fine anno ho saputo che Aaron Neville aveva fatto uscire un disco gospel prodotto da Joe Henry (prima o poi bisogna beatificarlo..) e che il nostro era accompagnato al piano da sua maestà Allen Toussaint, ho avuto un tuffo al cuore e ho sperato di ascoltare grande musica. E vi assicuro che non sono stato deluso. La voce angelica di Aaron con il suo inconfondibile falsetto canta una manciata di classici con un’intensità unica e una classe cristallina. La scelta di Henry è quella di un suono scarno, blues, grazie anche alla presenza di un ottimo Greg Leisz alla dobro e lap steel, di Chris Bruce alle chitarre, di Patrick Warren alle tastiere e di una base ritmica calda ed essenziale (il grande Jay Bellerose alle pelli e David Piltch al basso). Difficile scegliere tra queste dodici perle. Possiamo ricordare una dolce Stand By Me, la gioia contagiosa di I Done Made Up My Mind, un’intensa I Know I’ve Been Changed con Toussaint che dà lezioni di piano a tutti. In Don’t Let Him Ride i ritmi si alzano e dietro al piano boogie di Allen si scatenano i solo di Bruce, mentre un coro mantiene alto il climax. Splendida You Got To Move con il pianismo di Toussaint che strizza l’occhio al maestro Professor Longhair. Oh Freedom è un balsamo per l’anima con quell’inizio a cappella e quella slide guitar che sottolinea la dolcezza delle blue notes di Toussaint. Meetin’ At The Building con contrabbasso, battito di mani e una dolce chitarra acustica è pura, semplice eleganza. Insomma un disco splendido che ci rende migliori al solo ascoltarlo. In God We Trust…

Voto: 29/30

North Mississippi Allstars - Keys To The Kingdom - Songs Of The South Records 2011.

Questo trio, composto dai fratelli Dickinson (Luther chitarra, Cody batteria) e dal bassista Chris Chew, sono ben quindici anni che ci delizia con le sue proposte musicali. I nostri, inizialmente paladini di quel blues delle colline del Mississippi Settentrionale (rappresentato da artisti del calibro di R.L. Burnside e Junior Kimbrough), hanno saputo arricchire il loro sound con altre contaminazioni musicali. Con questa nuova fatica discografica si compie un passo ulteriore verso la ricerca di uno stile più variegato. I NMA si dimostrano più attenti alla forma canzone, meno ancorati al ruvido boogie-blues suonato nei juke joints del North Mississippi. Così in questo ottimo album, dedicato alla memoria del padre dei frateli Dickinson (il grande musicista, sessionman e produttore Jim) convivono brani country rock (pensiamo alle ballate elettriche How I Wish My Train Would Come e Hear The Hills), pezzi dal sapore gospel (vedi lo splendido cammeo di Mavis Staples in The Meeting), l’immancabile North Mississippi Hill Country blues (Let It Roll), energici rock blues (New Orleans Walkin' Dead, This A'way, Ain't None O' Mine) e deliziosi intermezzi acustici country-blues (Ol' Cannonball). Un disco vario e convincente.

Voto: 28,5/30

Massimo Daziani

17 febbraio 2011

Hey hey, my my, Rock and Roll can never die..

Rival Sons – Rival Sons - Earache Records 2011. Il mio vecchio cuore rock ha avuto un sussulto all'ascolto di questo EP dei californiani Rival Sons. Quando avevo undici-dodici anni i Beatles e i Led Zeppelin erano i più grandi (beh, confesso che la penso ancora così…). In tempi in cui non esisteva nè internet, né i DVD e le videocassette VHS non erano ancora di uso domestico, riuscii a vedere al cinema il film che ritraeva i Led Zeppelin nel 1973 dal vivo al Madison Square Garden di New York (The Song Remains The Same): per poco non mi sentii male dall’emozione. Ho pianto la morte di John Bonham e il conseguente scioglimento di uno dei gruppi più seminali della storia del rock. Ebbene ascoltando i Rival Sons ho riassaporato certe emozioni giovanili. C’è chi li ha paragonati ai Free. Effettivamente nella loro musica si respira aria di classic rock. A me ricordano molto la furia hard-blues dei primi Led Zeppelin, ma anche la spregiudicatezza ritmica degli Who (periodo Live At Leeds) e l’aroma southern dei Black Crowes. D'altronde l’ottimo chitarrista Scott Holiday (sempre al servizio del brano con i suoi riffs potenti e pronto a sporcare i pezzi con una slide che sa di Delta) non nasconde le loro influenze: il vecchio blues (Muddy Waters, Leadbelly, Howlin' Wolf), il soul (Stax & Motown) e alcuni gruppi inglesi degli anni 60 come gli Small Faces, gli Who e, appunto, i primi Led Zeppelin. Il cantante Jay Buchanan, con una vocalità tra Paul Rodgers e Robert Plant, è il valore aggiunto che fa grande una rock band: la sua calda ugola sa essere, a seconda delle esigenze, acutamente potente o dolcemente profonda. La base ritmica, rappresentata dai bravi Robin Everhart al basso e Michael Miley alla batteria, è un concentrato di precisione e spericolatezza. Attenzione a non pensare che i ragazzi siano solo dei pedissequi imitatori: in realtà hanno talento da vendere e, pur omaggiando la musica che li ha influenzati, sanno creare un proprio sound originale. Sono credibili perché trasudano onestà e passione: la loro è pura energia rock, maledettamente contagiosa. Allora fatevi travolgere dalla veemenza hard di Get What's Coming, dalle zeppeliniane Torture e Radio (con un ottimo Scott alla sei corde), dalla bollente Soul (poco più di 6 minuti di rock blues devastante e grezzo come un diamante non lavorato), dalla dolce e acustica Sacred Tongue, dalla pirotecnica Sleepwalker (dove i Free jammano con gli Zep). Io vi ho avvertito…
Voto: 29/30
Massimo Daziani
P. S. Qualche notizia in più: si sono formati nel 2008. Hanno pubblicato il loro primo strepitoso esordio (Before The Fire - Front Line Music. Voto: 29/30) nell’estate del 2009. Adesso escono con questo EP meraviglioso che si può scaricare a pagamento tramite iTunes. La release fisica sarà curata da Earache Records. A novembre entreranno in sala x registrare un nuovo album sempre per la Earache.

7 febbraio 2011

My Radio Boy@Aut Aut Roma

PREFAZIONE
Ci sono tanti gruppi che meritano di essere scoperti, ascoltati e visti dal vivo. I My Radio Boy sono uno di questi e dal momento che molti di voi si sono persi un gran bel concerto cercherò di raccontarvelo.

TITOLO
My Radio Boy, 21 gennaio 2011@Aut Aut, Roma


SVOLGIMENTO

L’Aut Aut è un localino molto underground (se non suoni il campanello non entri) nell’altra Trastevere, quella lontana dal delirio di americani che affollano locali spenna-turisti.
I My Radio Boy sono Rupert, Mariano e Basile, fanno electro pop e anche tanto spettacolo. Il trio apre le danze con una perla della nostra televisione trash: lo sketch della famosa “borra” di una spettatrice de “La Prova del Cuoco”, firmato Antonellina Clerici. E partono subito le prime risate.
I My Radio Boy sono così, divertenti e irriverenti, sembrano la perfetta colonna sonora per una festa anni ’80 piena di “Palloncini”, un misto tra le sonorità e la scazzoneria demenziale degli Amari e gli Ex Otago. L’approccio live è però senz’altro più diretto col pubblico, assolutamente non nordico-fighetto come quello dei gruppi sopra citati (e chiudo qui la velata polemica). Ma ritorniamo ai nostri My Radio Boy che strizzano l’occhio agli Animal Collective più acidi e lisergici e che sul palco si divertono e divertono il pubblico che non può fare a meno di accennare movimenti di anca e teste a tempo di musica.
Sanno fondere la semplicità e la leggerezza adolescenziale dei testi ad una musica che è sapientemente suonata e stratificata. E allora improvvisamente ritornano in mente oggetti che hanno accompagnato la nostra infanzia, dai palloncini alle biglie da spiaggia e alle bolle di sapone in una sintesi perfetta di recente passato e presente.
Il gran finale del concerto? Giacca di pallet e braccio alzato, immobile in mezzo al pubblico per 5 minuti buoni; uno dei My Radio Boy ci lascia così, col sorriso stampato in faccia e tanti ritornelli che ronzano in testa.


CONCLUSIONE
La prossima volta non perdeteli dal vivo (17 febbraio al Circolo Degli Artisti prima degli Skiantos).


28/30

POSTILLA
Guardatevi questo video esilarante, "Fuga d'amore per organo solo
"

Signorinza Zeta

23 gennaio 2011

My Favorite Things, ultimo atto

Eccoci all’epilogo della superclassifica 2010 divisa per “labili” categorie... Nel precedente post, durante il taglia e incolla, ho dimenticato di inserire il breve commento sui Black Keys (giustamente entrati nella categoria New Classics), autori dell’ottimo Brothers (Nonesuch). Come sempre sono pronto a rimediare, dicendovi che il nostro duo sforna un disco maturo di blues rock contaminato da interessanti iniezioni di funk e soul. Buona lettura e arrivederci a gennaio 2012…

Il Ritmo Dell’Anima

Aloe Blacc - Good Things - Stones Throw ; Asa - Beautiful Imperfection – Naïve ; Blundetto - Bad Bad Things - Heavenly Sweetness ; Gil Scott-Heron – I’m New Here – XL ; JJ Grey & Mofro – Georgia Warhorse – Alligator ; John Legend And The Roots - Wake Up! – Columbia ; Kings Go Forth - The Outsiders Are Back - Luaka Bop ; Mavis Staples - You Are Not Alone – Anti ; Michael Leonhart & The Avramina 7 - Seahorse and The Storyteller - Truth & Soul ; Sharon Jones & the Dap-Kings – I Learned the Hard Way - Daptone Records ; Shawn Lee - Sing A Song - Ubiquity Records ; The Duke And The King – Long Live The Duke And The King ; The Roots - How I Got Over - Def Jam ; Toots And The Maytals - Flip And Twist - D&F Records.
Si parla di rhythm and blues, di musica soul, di ritmi caraibici, di musicisti che prendono ispirazione dalla tradizione musicale afroamericana. Cominciamo con un’artista nigeriana, Asa; a Lagos la nostra ha avuto modo di ascoltare i grandi del soul (Marvin Gaye e Aretha Franklin in primis), ma anche Fela Kuti e il reggae. E nel suo disco tutte queste influenze convivono con brio e leggerezza. Dalla Francia arriva una delle band reggae più intriganti del 2010, i Blundetto; in realtà la musica giamaicana è solo il punto di partenza per un suono che si lascia tentare anche dal soul, dal funky e dal jazz. Sharon Jones, accompagnata dagli impeccabili Dap-Kings, porta le lancette del tempo agli anni 60 con un soul elegante e romantico, sporcato qua e là da vigorose iniezioni di funky. Gil Scott-Heron è di nuovo tra noi e sta bene: tanto basta per emozionarsi di nuovo con la sua arte sonora. Il geniale produttore e multistrumentista Shawn Lee, facendosi aiutare da alcuni suoi amici cantanti, è riuscito a creare un potente disco di funk&soul con venature psichedeliche. Simone Felice, con i suoi The Duke & The King, sposta l’elegante folk rock degli esordi verso lidi sempre più soul. Il disco dei Kings Go Forth è un concentrato di pura energia funky & soul, mentre il mitico Toots con i suoi Maytals continua a sfornare deliziosi album dove il reggae e il soul di scuola Stax vanno amorevolmente a braccetto. I veterani dell'hip hop, the Roots, oltre a partecipare allo strepitoso disco di John Legend, sfornano un altro capitolo della loro eccezionale storia musicale: pura classe, grandi musicisti. E per finire una splendida anomalia: Michael Leonhart. Questo artista, dopo un’illustre carriera di arrangiatore-produttore-musicista a fianco di nomi che fanno tremare i polsi (Steely Dan, Brian Eno, David Byrne, tanto per citarne alcuni), registra un disco di difficile catalogazione. Nell'album troviamo ritmi afro-beat, spruzzate di funk, dolci ballate, jazz che filtra con atmosfere psichedeliche e suoni etno. Per creare questo sound proteiforme Michael si fa aiutare da membri dei Dap-Kinks (l’anima soul-funky), degli Antibalas (l’anima afro-beat) e dei TV On The Radio (tutto il resto..). Un disco stupefacente, pieno di sorprese musicali, suonato meravigliosamente e colpevolmente ignorato dalla critica musicale. Degli altri si è già parlato in fase di recensione…

New Sounds Of Tradition

Afrocubism - Afrocubism - World Circuit ; Alasdair Roberts - Too Long In This Condition - Drag City ; Ali Farka Tourè & Toumani Diabatè - Ali & Tourè - World Circuit ; Bellowhead - Hedonism – Navigator ; Chumbawamba - ABCDEFG – Westpark ; Dirtmusic - BKO – Glitterhouse ; Imperial Tiger Orchestra – Addis Abeba – Mental Groove ; Lobi Traoré - Rainy Season Blues - Glitterhouse Records ; Lokua Kanza - Nkolo - World Village ; Marcos Valle - Estatica - Far Out ; Sierra Leones Refugee All Stars - Rise & Shine – Cumbancha ; Victor Démé - Deli - Chapa Blues ; Vinicius Cantuaria - Samba Carioca – Naïve ; Up, Bustle & Out - Soliloquy - Ninja Tune.
Musica della tradizione che viene interpretata da artisti contemporanei con moderna sensibilità. Partiamo con uno splendido incontro fra due mondi musicali, l’Africa e il suono cubano: in una parola sola Afrocubism. Ali Farka Tourè e Toumani Diabatè, due maestri della musica maliana; si recuperano loro registrazioni risalenti al 2005, anno di pubblicazione dello stupendo In the Hearth of the Moon e abbiamo un nuovo piccolo gioiello… Chris Eckman, oltre che averci deliziato con i suoi Dirtmusic (da me recensiti in autunno), si dimostra abile e sensibile produttore avendo voluto pubblicare un disco di un grande artista maliano ormai scomparso, Lobi Traorè; fatevi pure avvolgere dalle splendide e ipnotiche spire sonore del suo blues ancestrale per sola voce e chitarra. Victor Démé, musicista del Burkina Faso, si dimostra ancora una volta artista eclettico, capace di creare un’opera multiforme che si fa influenzare volentieri dai suoni occidentali, senza tradire le sue radici musicali. Per fare ethio-jazz non bisogna necessariamente essere nati in Abissinia. Basta ascoltare gli svizzeri Imperial Tiger Orchestra per avere una conferma di questa mia affermazione; il loro disco, pur essendo figlio della musica di Mulatu Astatkè, risulta più coinvolgente dell’ultima deludente fatica discografica del grande compositore etiope. Lokua Kanza, strumentista preparato e cantante superbo, è autore di una musica eterea che parte dalle suggestioni sonore del suo natio Congo, per approdare a lidi musicali di estatica bellezza. Come sempre la musica può lenire grandi dolori; è accaduto ai musicisti della Sierra Leones Refugee All Stars, incontratisi in un campo profughi della Guinea, durante la terribile guerra civile che ha devastato il loro paese: quasi per reazione a tanto dolore, la loro musica risulta positiva e solare, così contaminata dai suadenti ritmi del reggae. Alasdair Roberts, Bellowhead e Chumbawamba possono essere accumunati per la rilettura che fanno della tradizione musicale anglo-scoto-irlandese: più rispettosa del passato quella del menestrello scozzese Alasdair, più variopinta e bandistica quella dei Bellowhead, sarcastica e anticonvenzionale quella dei Chumbawamba. Due campioni della musica popolare brasiliana lasciano il loro segno anche nel 2010: Vinicius Cantuaria, con un disco di elegante bossa nova velata di jazz (grazie anche all’apporto di Bill Frisell e Brad Mehldau) e il veterano Marcos Valle, autore di una bossa nova più pop, con sfiziosi innesti psichedelici, ritmi samba e tentazioni funkeggianti. Gli Up, Bustle & Out contaminano il loro trip hop con suoni provenienti dall’Arabia, dalla Turchia e dal Sud America, confermando ancora una volta che nella musica la globalizzazione è cosa buona e giusta…

Spaghetti Rock

A Toys Orchestra - Midnight Talks – Urtovox ; Baustelle - I Mistici Dell'Occidente – Warner ; Black Friday - Hard Times - Alì Bumaye ; Calibro 35 - Ritornano Quelli Di... – Ghost ; Il Pan Del Diavolo - Sono All’Osso - La Tempesta ; Movie Star Junkies - A Poison Tree - Voodoo Rhythm ; Perturbazione - Del Nostro Tempo Rubato - Santeria ; Samuel Katarro - The Halfduck Mystery - Trovarobato ; Amor Fou – I Moralisti – EMI
Eccoci approdati alle patrie coste. Ci piace ricordare il corposo suono da colonna sonora anni 70 riproposto in modo magistrale dai Calibro 35, veri paladini della Blaxploitation all’italiana, il blues rurale dei Black Fridays, il folk rock arrabbiato dei palermitani Il Pan Del Diavolo, il rockabilly spettrale dei Movie Star Junkies, il folk spruzzato di psichedelia e blues (con attitudini canterburiane) del piccolo grande Samuel Katarro, il pop rock che guarda alla tradizione della canzone d'autore nostrana nel ciclopico disco dei Pertubazione e nel malinconico album dei milanesi Amor Fou. Degli altri come sempre vedere alla voce recensioni.

Jazz & Fusion

Bobby McFerrin - Vocabularies – Emarcy ; Cassandra Wilson - Silver Pony – EMI ; Charlie Haden Quartet West - Sophisticated Ladies - Universal/EmArcy ; Elephant9 - Walk The Nile - Rune Grammofon ; Keith Jarrett & Charlie Haden - Jasmine – ECM ; Silvia Manco - Afternoon Songs – Egea ; Trombone Shorty - Backatown – Verve
Altro mondo sterminato è quello del jazz, con tutte le sue possibili diramazioni e contaminazioni. Con questa mia breve lista non pretendo di esaurire un universo sonoro così vasto, cito solo artisti che mi hanno saputo emozionare…Cominciamo con lo stupefacente virtuoso dell’ugola, Bobby McFerrin che firma un lavoro sontuoso, camaleontico all’insegna di un utizzo corale della voce con forti tinte africane. Meraviglioso il disco di Cassandra Wilson (con registrazioni live rielaborate in studio), una delle migliori vocalist jazz contemporanee; accompagnata da un gruppo di eccellenti musicisti (meritano una citazione il pianista Jonathan Batiste e il chitarrista Marvin Sewell), Cassandra passa con la consueta classe da standard jazz, a brani originali, da canzoni pop, a classici del blues, regalando alla fine una vera chicca a tutti gli appassionati di musica afroamericana. L’instancabile contrabbassista Charlie Haden firma un elegante omaggio alle signore del jazz e in coppia con Keith Jarrett ci consegna un distillato di emozioni sonore. Trombone Shorty (Troy Andrews) è autore di un disco frizzante che riesce ad amalgamare la tradizione musicale della sua natia New Orleans (ovvero hot jazz e r’n’b) con suoni più moderni come il soul, il funk, l’hip-hop, non disdegnando energiche iniezioni di rock; alla fine la sua musica risulta originale, eccitante e contagiosa. Finiamo con gli Elephant9, strepitoso trio jazz-rock norvegese con attitudini progressive, che possono ricordare certe esperienze di contaminazione musicale tipiche degli anni sessanta (pensiamo ai Lifetime di Tony Williams..).

Blues Power

Elliott Sharp/ Henry Kaiser - Electric Willie A Tribute To Willie Dixon - Yellowbird ; Eric Bibb - Booker's Guitar - Telarc ; Harper - Stand Together - Blind Pig ; James Cotton - Giant – Alligator ; Jimmie Vaughan - Plays Blues, Ballads & Favorites - Shout! Factory ; Moreland & Arbuckle - Flood – Telarc ; Otis Taylor - Clovis People - Vol.3 – Telarc ; The Mannish Boys - Shake For Me - Delta Groove ; T-Model Ford - The Ladies Man - Alive Natural Sound
Concludiamo con una delle mie passioni più antiche: il blues. Mi piace ricordare una serie di vecchie glorie che brillano ancora come l’armonicista James Cotton, sempre capace di emozionare con il suo Chicago style, come il novantenne T-Model Ford che fa rivivere splendidamente i suoni del Delta, come Otis Taylor con il suo blues ipnotico (debitore a John Lee Hooker) sempre disposto a confrontarsi con il folk ed il rock. I Mannish Boys, vero e proprio collettivo blues aperto, fanno un lavoro di ricerca sui suoni del passato, risultando sempre freschi e coinvolgenti. Jimmie Vaughan è autore di un elegante disco che ancora una volta omaggia la sua passione per il r’n’b e il jump blues. Moreland & Arbuckle contaminano di feroce elettricità il blues delle colline del Mississippi settentrionale, non disdegnando a volte momenti acustici e rurali. Eric Bibb ci conquista con il suo elegante blues acustico, che si rifà decisamente ai grandi eroi del Delta style. L’armonicista australiano Harper poteva trovarsi anche nella categoria Il Ritmo Dell’Anima, vista la sua capacità di mischiare il blues con il funky e il soul; altra sua peculiarità è quella di inserire elementi di musica aborigena in un tessuto sonoro tipicamente afroamericano, grazie all’uso del didgeridoo (antico strumento a fiato). Finiamo in bellezza e originalità con l’omaggio che Elliot Sharp, accompagnato da alcuni amici musicisti (Henry Kaiser, Eric Mingus, Queen Esther fra gli altri), ha fatto alla musica del grande compositore e contrabbassista blues Willie Dixon; la sua chitarra regala momenti di improvvisazione e sperimentazione che danno nuova linfa a classici stranoti.


Massimo Daziani

Se il Latte si dovesse rivelare Acido...


Small Craft in a Milk Sea - Brian Eno (Warp 2010)

Perché stiamo parlando assolutamente di un mostro sacro.
È Brian Eno che nelle sue composizioni ha sempre tirato fuori il meglio in circolazione.
Non lo potrei mai definire un musicista Brian Eno, Brian Eno non è un musicista (lo dice anche nel suo libro Music for Non-Musicians), Brian Eno è semplicemente un genio poliedrico, colui che fra composizione informatica, campionamento analogico e suoni digitali non si è mai tirato indietro dal produrre capolavori. Un artista che dichiara di essersi ispirato per la sua musica a La Monte Young e a Terry Riley, che ha collaborato con tutti i più grandi musicisti della sua epoca (e non parlo degli U2) può solamente essere definito un guru. Per me lo è.
Certo, sto sicuramente girando intorno al problema, una questione in questo caso si chiama Small Craft on a Milk Sea, produzione Warp di un tardo 2010 che solo oggi trovo il coraggio di recensire per ovvi motivi.
Erano anni che gli ambienti underground parlavano di una prossima collaborazione stratosferica fra l'etichetta più sfavillante del panorama indie-elettronico e il più grande compositore digitale di tutti i tempi. Va da sé che all'uscita di un simile lavoro l'emozione è stata tangibile.
Il primo pezzo del disco Emerald and Lime, lascia senza fiato. È l'incipit ideale a qualcosa che ti aspetti ampio di argomenti, di suoni, di narrazione. "Questo disco è una fucilata" ricordo di aver pensato. Mi incuriosivano questi suoni un pò Matmos (the West) un po' psichedelia settantastyle. Il resto però, invece, che continuare con le emozioni, è stato un declino inesorabile.
Il secondo brano Complex Heaven suona banale e tedioso, l'omonimo Small Craft on a Milk Sea semplicemente incompleto. Poi ci sono quegli attacchi che non hai idea di dove vogliano andare a parare Flint March, due minuti scarsi di presunzione sonora. Ok mi fermo qui, non stroncherò tutte le tracce una per una, però non riesco a capire perché un creatore di algoritmi di newtoniana fama si sia abbassato a tratti a scopiazzare artisti talentuosi sì ma pur sempre suoi allievi.
Invisible non è male, ma arriva proprio alla fine del disco.
Mi dispiace Brian, sai quanto è grande la mia stima nei tuoi confronti. Ma nulla può salvare questo disco. Davvero Nulla!

Non lo Giudico

Tommie

18 gennaio 2011

My Favorite Things, parte seconda

Siamo arrivati alla seconda parte della superclassifica 2010 divisa per “labili” categorie... Nel precedente post, durante il taglia e incolla, ho dimenticato di inserire Ty Segall tra gli artisti elencati sotto la sigla New Lifeblood,. Eccomi pronto a rimediare, consigliandovi caldamente il suo Melted (Goner Records), a metà fra garage sporco e folk malato, tra punk e Syd Barrett. Buona lettura.

New Classics

Antony And The Johnsons – Swanlights - Secretly Canadian ; Arcade Fire - The Suburbs – Merge ; Broken Social Scene - Forgiveness Rock Record - Arts & Crafts ; Damien Jurado - Saint Bartlett - Secretly Canadian ; Eels - End Times - Vagrant; ; John Grant - Queen Of Denmark - Bella Union ; Liars - Sisterworld – Mute ; Natalie Merchant - Leave Your Sleep – Nonesuch ; Nina Nastasia - Outlaster - Fat Cat ; Shearwater - The Golden Archipelago – Matador ; Spoon - Transference - ANTI ; Sufjan Stevens - All Delighted People EP - Asthmatic Kitty ; The BellRays – Black Lightning - Fargo; The Black Keys - Brothers – Nonesuch ; The Coral - Butterfly House – Deltasonic ; The National - High Violet - 4AD; Wovenhand - The Threshingfloor - Glitterhouse
Ormai ci sono musicisti che certo non possiamo più considerare degli esordienti; il loro valore artistico è tale, che ogni uscita suscita grande aspettativa. Sono i nuovi classici: personaggi come Antony Hegarty, che anche stavolta ha saputo toccare le corde più profonde del nostro animo, come Damien Jurado che ci ha regalato un folk-rock di nostalgica dolcezza, gruppi come gli Arcade Fire, che hanno messo d’accordo tutta la critica musicale con un rock onesto che racconta storie di sobborghi metropolitani, come i Broken Social Scene con il loro indie-rock arcobaleno, come i Liars che all’opposto ci regalano un affresco rock inquietante ed oscuro, come gli Shearwater con il loro folk rock sontuoso e ambientalista. Gli Spoon continuano a sfornare lavori multiformi che, pur attingendo alla tradizione rock, sanno essere sempre originali, i BellRays hanno ancora energia da vendere e sanno come sempre mischiare in maniera mirabile punk&funky, hard-rock&soul, i Coral ci regalano un’opera di struggente bellezza, omaggio ai suoni del passato (leggi California anni 6O), i National continuano con il loro pop elegante e solenne, dietro la sigla Wovehand si cela David Eugene Edwards che, lasciatisi alle spalle i mitici 16 Horsepower, ci delizia con un country-folk malato e oscuro, venato di screzi psichedelici. A dire la verità la veterana Natalie Merchant poteva tranquillamente far parte degli Oldies But Goodies, ma si tratta pur sempre di una signora(artista sopraffina) e non era carino metterla tra i vecchi leoni... Di lei e degli altri non citati in queste brevi note potrete cercare alla voce recensioni.

American Fields

Avi Buffalo - Avi Buffalo - Sub Pop ; Band Of Horses - Infinite Arms - Brown ; Bonnie ‘Prince’ Billy & The Cairo Gang – The Wonder Show of the World - Drag City ; Deer Tick - The Black Dirt Sessions – Partisan ; Delta Spirit - History From Below - Rounder ; Dylan LeBlanc - Paupers Field - Rough Trade ; Justin Townes Earle - Harlem River Blues – Bloodshot ; Patrick Park - Come What Will - Badman ; Pernice Brothers – Goodbye,Killer - One Little Indians ; Phosphorescent - Here's to Taking It Easy - Dead Oceans ; Radar Brothers - The Illustrated Garden - Chemikal Underground ; Ray LaMontagne & The Pariah Dogs - God Willin’ And The Creek Don’t Rise - Red Ink ; Truth And Salvage Co. - Truth And Salvage Co. - Silver Arrow ; Walter Schreifels - An Open Letter To The Scene - Arctic Rodeo ; Wooden Wand - Death Seat - Young God
E’ innegabile che i musicisti americani abbiano sempre avuto un rapporto semplice e diretto (leggi per nulla conflittuale) con la propria tradizione musicale. Nel corso del tempo la critica specializzata si è spesso ingegnata nel coniare nuovi termini (american folk music revival, country rock, outlaw country, americana,alternative country) per spiegare questo indissolubile legame che unisce artisti giovani con musicisti del passato, l’antico con il contemporaneo. Sta di fatto che ancora oggi continua ad esserci questa attrazione fatale per il suono tradizionale; dunque anche quest’anno sono usciti ottimi album che prendono ispirazione dalle musiche che hanno sempre echeggiato nelle grandi praterie del Nord America. I giovanissimi californiani Avi Buffalo con il loro omonimo esordio sono stati accostati al suono indie-rock di band come gli Shins, ma è indubbio che ci sia un retrogusto anni sessanta che richiama ai grandi protagonisti del country-rock (Neil Young e Byrds in primis), i Band Of Horses si confermano gruppo dal suono suggestivo con le loro splendide armonie vocali, il “maestro” Bonnie Prince Billy si fa accompagnare dai Cairo Gang (ovvero Emett Kelly & friends) per rendere elettrico il suo scarno songwriting, creando un suono con suggestioni alla CSN&Y, i Deer Tick ci conquistano con un folk-rock sporco e malinconico, i Delta Spirit, provenienti da San Diego, rileggono con sincerità freak il folk dei padri (Dylan su tutti). Justin Townes Earle, Patrick Park e Ray LaMontagne, ognuno con il proprio stile, rinverdiscono la secolare tradizione dei folk singer; anche Walter Schreifels, proveniente da esperienze musicali lontane anni luce dalla musica popolare americana (leggi hardcore), si mette in proprio e si lascia ammaliare dalle sirene dell’alt country, con ottimi esiti, come pure nel disco dei redivivi Radar Brothers si sente più decisa una vena di americana. Phosphorescent, ovvero Matthew Houck, autore di un’opera matura, impreziosisce il suo stile con sapori country-rock, grazie alla presenza di una strumentazione ricca (a volte sono presenti anche i fiati). I Pernice Brothers creano un disco delizioso che riesce a far convivere con grazia sonorità country e tentazioni pop. Per finire citiamo i Truth And Salvage Co., prodotti da Chris Robinson dei Black Crowes, autori di un disco di canzoni ben scritte, dal sapore country, con aromi southern e i Wooden Wand giovani eredi del country maledetto di scuola Hank Williams. Dylan LeBlanc è stato già celebrato in fase di recensione (vedere Emozioni d’Autunno…).

Hard Times For Heavy People…

Black Label Society – Order Of The Black – Roadrunner ; Danko Jones - Below The Belt - Bad Taste ; The Sword - Warp Riders - Kemado ; Wino - Adrift - Exile On Mainstream
Non ho nessuna intenzione di addentrarmi in un universo musicale sterminato come il metal. Ci vogliono gli esperti del settore. Però qualche volta riesco ancora a pescare del buon sano hard-rock che mi riporta alla mia infanzia musicale, alimentata dai classici Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath… E allora prendiamoci una cura ricostituente di energia con i Black Label Society di Zakk Wylde, autori di un disco potente a cavallo tra hard e metal, con lievi sfumature southern, oppure rinfranchiamoci con i canadesi Danko Jones, fautori di un rock’n’roll ad alto voltaggio. Se amate le sonorità stoner debitrici del suono sabbattiano non lasciatevi sfuggire il disco degli Sword, mentre un altro veterano del doom metal, il funambolico chitarrista Scott “Wino” Weinrich, ci offre un disco quasi completamente acustico che svela la sua anima più rock.

Dissonanti Armonie
Arandel - In D – Infiné ; Caribou - Swim – Merge ; Daft Punk - Tron Legacy – EMI ; Flying Lotus - Cosmogramma – Warp ; Four Tet - There Is Love In You – Domino ; Gonjasufi - A Sufi And A Killer – Warp ; The Album Leaf - A Chorus Of Storytellers - Sub Pop ; The Books - The Way Out - Temporary Residence.
Parliamo di quegli artisti che si muovono tra elettronica e ritmi, tra suggestioni da colonna sonora e ritorno di fiamma alla forma canzone. Dan Snaith, in arte Caribou, ci ammalia con il suo pop elettronico variopinto, il “maestro” Flying Lotus ci fa accomodare sulla sua astronave sonora per farci fare un viaggio cosmico, i Daft Punk ci sorprendono con una colonna sonora che li mostra musicisti completi, Four Tet (Kieran Hebden) ci avvolge con la sua elettronica purificatrice, i The Books, campioni della folktronica, ritornano per stupirci con il loro mosaico musicale. Come sempre, per gli altri vedere alla voce recensioni.

Massimo Daziani

15 gennaio 2011

My Favorite Things

Il 2010 ce lo siamo definitivamente lasciato alle spalle e un altro anno di musica è passato già agli archivi. Siamo così entrati nel classico periodo dei bilanci e delle immancabili classifiche. Al di là di certe considerazioni di alcuni miei amici musicofili, che vanno dal cinico (“non sono sicuro di riuscire a trovare tutti i dischi necessari per compilare la top ten”) al catastrofico (“il 2010 non è stato musicalmente buono”), si può alla fine liquidare quest’anno appena trascorso come interessante, stimolante, con le sue novità, le sue conferme e le sue immancabili delusioni: né più né meno come quello che succede sempre… Siccome mi dispiace di non aver avuto il tempo di segnalare e, in qualche caso celebrare, tutti gli artisti che hanno allietato musicalmente il mio 2010, mi permetto di fare una serie di piccole liste tematiche con brevi commenti in calce. Se poi consideriamo anche le perle che si scoprono troppo tardi (leggi a classifiche già compilate), queste mie cose preferite hanno una giustificata urgenza di essere esternate. Alla prossima…

Oldies But Goodies

Brian Wilson - Reimagines Gershwin - Walt Disney ; Dr John And The Lower 911 - Tribal - 429 ; Elton John And Leon Russell – The Union - Mercury ; Hoodoo Gurus - Purity Of Essence - Sony ; John Hiatt - The Open Road - New West ; John Mellencamp - No Better Than This - Rounder ; Johnny Cash - American VI - Ain't No Grave - Lost Highway ; Mose Allison - The Way Of The World – Anti ; Neil Young – Le Noise - Reprise ; Paul Weller - Wake Up The Nation -Island ; Ray Wylie Hubbard - A. Enlightenment B. Endarkenment (Hint There Is No C) - Bordello ; Robyn Hitchcock - Propellor Time - Sartorial ; Roky Erickson with Okkervil River - True Love Cast Out All Evil - Anti ; Rowland S. Howard - Pop Crimes - Infectious ; The Black Crowes - Croweology - Silver Arrow; Tom Petty And The Heartbreakers - Mojo - Reprise ; Swans - My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky - Young God ; Widespread Panic - Dirty Side Down – ATO
Eccoci con vecchi leoni che ruggiscono ancora. Mi piace segnalare il delizioso omaggio a Gershwin di Brian Wilson (ormai del tutto recuperato e protagonista di una splendida seconda giovinezza artistica), la grande classe di Dr John, che sforna un disco dal sound denso e limaccioso come il Mississippi che sfocia nella sua natia New Orleans, un Neil Young mai domo, un John Mellencamp che si abbevera alle fonti della musica popolare americana, l’intenso testamento musicale lasciatoci da Rowland S. Howard, la splendida rilettura unplugged dei loro classici fatta da dei Black Crowes in stato di grazia, il ritorno convincente degli Swans, l’energia elegante di una storica jam band come i Widespread Panic. Degli altri andare a vedere alla voce recensioni…

New Lifeblood

Anais Mitchell - Hadestown - Righteous Babe ; Beach House - Teen Dream - Sub Pop ; Black Mountain - Wilderness Heart – Jagjaguwar ; Deerhunter - Halcyon Digest - 4AD ; Erland & The Carnival - E & T C - Full Time Hobby ; Field Music - Measure - Memphis Industries ; Gemma Ray - It'a A Shame About Gemmma Ray - Bronzerat Records ; Joanna Newsom - Have One On Me - Drag City ; Lawrence Arabia - Chant Darling - Bella Union ; Lone Wolf - The Devil And I - Bella Union ; Love Is All - Two Thousand And Ten Injuries - Polyvinyl Records ; Martha Tilston - Lucy And The Wolves – Squiggly ; Menomena - Mines - Barsuk ; Midlake - The Courage Of Others - Bella Union ; Morning Benders - Big Echo - Rough Trade ; Owen Pallett - Heartland – Domino ; Pontiak - Living - Thrill Jockey ; Sleepy Sun - Fever – ATP ; Suckers - Wild Smile - French Kiss ; Tame Impala - Innerspeaker – Modular ; The Besnard Lakes - Are The Roaring Night – Jagjaguwar ; The Black Angels - Phosphene Dream - Blue Horizon Records ; Wildbirds And Peacedrums - Rivers – Leaf ; Yeasayer - Odd Blood – Mute ; Quest For Fire - Lights From Paradise - Tee Pee
Nuove generazioni soniche crescono e ci regalano dischi importanti che rivitalizzano la nostra passione musicale. I Beach House si confermano con il loro elegante pop onirico, Lone Wolf ci ammalia con il suo folk crepuscolare, i Morning Benders ci cullano con un pop-rock venato di folk, i Pontiak non sbagliano un colpo con il loro rock rinforzato da riff doom, spruzzato di blues e ammantato di suggestioni psichedeliche, i Quest For Fire avrebbero meritato di essere recensiti nei miei psychedelic dreams, i Suckers sfornano un ottimo esordio, i Wildbirds & Peacedrums sanno ancora stupirci, gli incatalogabili Yeasayer portano l’eclettismo musicale al potere. Per i Menomena volevo spendere qualche parola in più: i ragazzi di Portland ci regalano un piccolo gioiello di pop deviato, dove la capacità di manipolare i suoni non è banale gioco tecnico, ma arte al servizio della canzone. La loro capacità di uscire dagli schemi li ha fatti accostare a gruppi come i Tv On The Radio, i funambolici Flaming Lips o addirittura ai mai dimenticati Morphine (soprattutto per l’uso aggressivo del sax). Ma forse è ora di dire che siamo di fronte ad una band originale che va finalmente celebrata. Uno dei dischi più belli del 2010 (e non solo). Voto: 29/30. Degli altri si è già detto alla voce recensioni…

It’s Only Rock’n’Roll …

Nick Curran & The Lowlifes - Reform School Girl - Eclecto Groove Records ; Ted Leo And The Pharmacists - The Brutalist Bricks – Matador ; The Jim Jones Revue - Down House Your Burning - PIAS Recordings
Chiudiamo questa prima parte di my favorite things con quei dischi che fanno battere il proverbiale piedino. Abbiamo un potente distillato di rock’n’roll anni 50 con Nick Curran, vero clone vocale di Little Richard, l’indie-rock scanzonato di Ted Leo And The Pharmacists e, per finire in energica bellezza, il devastante sound della Jim Jones Revue (come se Jerry Lee Lewis suonasse insieme ai Sonics e all’allegra combriccola si unissero Iggy Pop e le New York Dolls…)

Massimo Daziani