(da Blow Up #211, rubrica "Visti & Sentiti" dicembre 2015)
La strumentale ed eterea Redford, brumosa quanto basta e suonata nell’oscurità della sala, ci
introduce perfettamente al mood di una serata dove intuiamo subito che regnerà
lo spleen agrodolce dell’ultimo atto a firma Sufjan Stevens: Carrie & Lowell. Sull’arpeggio
iniziale di Death with Dignity si
accendono le luci soffuse e si mettono in azione i 9 pannelli collocati dietro
il palcoscenico, messi a mo di Pala d’altare ecclesiastico (casualità?) che
proiettano scenette di filmini familiari in 8 millimitri, direttamente
dall’archivio d’epoca della famiglia di Stevens, immagini che torneranno spesso
nel corso della serata. E il live dell’artista statunitense che sta prendendo
forma si può già ben riassumere così: un’esibizione accorata, tra il privato e
il pubblico, in cui il mettersi a nudo pubblicamente diventa un’esigenza
(un’urgenza?) per raggiungere una catarsi collettiva dove ognuno di noi (Lui/Noi)
fa la sua parte mostrandosi in modo autentico per quello che è.
(Death with Dignity apre l'ultimo disco di Sufjan)
Difficile
infatti sottrarsi a questo compito che ha il sapore del mistico e del biblico
quando sul palco ti si palesa davanti, in tutta la sua fragranza, Sufjan: un
angelo mandato su questa terra da dio in persona (l’occhio di bue che spesso lo
illumina potrebbe sembrare il suo
occhio) per irrorare con la sua celestiale voce (si, pazzesca anche dal vivo)
questi tempi bui. Essere atei non serve a niente, non hai scampo: dalle casse
del Teatro della Luna si diffonde una delicatezza e una pace che sanno di universale;
un flusso innodico comunque chiaroscurale, classico e leggero al tempo stesso. Coadiuvato
dai quattro sodali chiamati ad accompagnarlo, Stevens complica, arricchisce e
colora gli scarni arrangiamenti dell’ultimo album (esibito nella sua interezza)
trasformando le canzoni da minimali che erano a vere e proprie “suite rock”,
dove il crescendo diventa la formula musicale
perseguita. Chitarre, mandolini, piano, laptop, rhodes, synth, fiati (tutti i
componenti suonano tutto) e soprattutto percussioni e batteria (quasi assenti
in Carrie & Lowell) trasformano
questi brani facendoli diventare più appetibili e “divertenti” (passatemi il
termine) in fase live, rendendo la serata imprevedibile e movimentata. Ecco
così, per esempio, che All of Me Wants
All of You diviene quasi psichedelica e The
Only Thing cambia pelle in pezzo elettronico. Alla sola No Shade in the Shadow of the Cross è
concesso il privilegio di rimanere nuda e cruda così com’è, chitarra e voce,
mentre dietro viene proiettato in campo totale un paesaggio scoglioso da Mar
del Nord che si tramuta in puro paesaggio mentale.
(il video di No Shade in the Shadow of the Cross viene retro-proiettato anche nel live di Sufjan)
Siamo dalle parti del
sublime o poco ci manca. Prima dei bis il songwriter, silente per tutta la
serata fino a quel momento, si scusa con la platea se le sue canzoni sono “… so sad” ma che d’altronde quello è
l’unico modo in cui riesce a comporre e esprimersi. Riusciamo a perdonarlo.
Dopo una manciata di canzoni estratte dai suoi primi album viene affidata a Chicago, esibita in punta di piedi, l’onore
di chiudere una serata salutata dal pubblico con una sentitissima standing
ovation, rara per intensità e partecipazione, e un interminabile applauso.
Marco 0f0 Giappichini