22 dicembre 2011
Best Album 2011 by Tommie
So già che ho dimenticato qualcuno. E che 0f0 mi cazzìerà perché ho pubblicato qualche pezzo del '71!
Archers Of Loaf - Icky Mettle
Art Brut - Brillant! Tragic!
Beastie Boys - Hot Sauce Committee Part 2
Beirut - The rip Tide
Bibio - Mind Bokeh
Arabia Mountain - Black Lips
Black Lips - Arabia Mountain
BluePrint - Adventures In Counter Culture
Crystal Antlers - Two Way Mirror
Dan Mangan - oh Fortune
Evidence - Cats and Dogs
Firefox Ak - Color the Trees
Gable - Cute Horse Cut
Gold Panda - Companion
James Blake - James Blake
Panda Bear - Tomboy
Shabbazz Palaces - Black Up
the Black Keys - el Camino
Tune Yards - Whokill
Tyler the Creator - Goblin
20 dicembre 2011
Best Albums 2011 by OfO
23 agosto 2011
E SE LO DICE VOGUE...
WU LYF
"Go Tell Fire To The Mountain" (Lyf) 2011
La loro musica è "Heavy pop", sono quattro ragazzetti di Manchester (anche se la formazione è mutevole e spesso si ritrovano in sei sul palco) che dicono di voler essere molto più di una band e ci stanno anche riuscendo. Il disco d'esordio del collettivo Go Tell Fire To The Mountain è autoprodotto ed è stato registrato in una chiesa sconsacrata, gli intenti del World Unite! Lucifer Youth Foundation (nome del gruppo per esteso) sono i seguenti "Miriamo a unire più persone, miriamo a inondarvi di batterie dure e ritmate, di voci da vecchio cantautore americano ubriaco in una chiesa, chitarre e bassi penetranti, vi penetreremo nelle orecchie. Non ci accontentiamo di passare sulle radio di tutto il mondo."
Fatto sta che di curiosità attorno alla band se n'è creata molta, perchè si fanno vedere poco, zero interviste e gli unici che pagano il doppio ai loro concerti sono giornalisti e discografici. Ma veniamo alla musica, per cominciare organo a gò-gò, strumento che non mi hamai fatto impazzire e quindi la prima stranezza sta proprio nell'essermi appassionata così tanto a un disco dissipato di hammond. Il tutto diventa ancora più curioso se parliamo del risultato che ne viene fuori associando il più sacro degli strumenti (e del luogo di registrazione) alla più sfrontata delle attitudini ossia la hc. Di core in questo esordio ce n'è a esagerare, gli arpeggini post-rock di Evans Kati vanno dritti ai cori dei più romantici poi c'è il cantato, spesso a due voci, dissacrante, maleducato e nevrotico, uno sfogo che a tratti ci porta indietro agli At the Drive-in di "In casino out" o al presente dei nostrani Fine Before you Came.
Inni semplicemente melodici, come il pezzo che apre il disco ("LYF"), ballate sacre ("Spitting Blood") e mini suite ("Concrete Gold" e "Heavy Pop") fanno di questo disco uno degli esordi più interessanti dell'anno. Se parlare di pace e di fratellanza e non abbassare la testa alle leggi dell’industria musicale è hype,... la moda sta cambiando e io non me ne ero accorta.
29/30 Fox
4 luglio 2011
Tra il serio e il faceto
4 giugno 2011
Sufjan sembra impazzito. Invece è un genio: cronaca del concerto dell'anno (e forse del decennio)
Sufjan Stevens, per la prima volta in Italia. E' sbarcato a Ferrara lo scorso 24 maggio, al Teatro Comunale: una cornice perfetta per lo show che ha deciso di portare in giro per il tour di "The Age od Adz". Due ore e mezzo di incanto, stupore e meraviglia. Elettronica, pop, la sua voce calda da country, navicelle spaziali, cosmonauti vestiti di fluo e gigantesche ali bianche. E monologhi infiniti in cui si è fatto conoscere meglio dal pubblico, visto che non rilascia interviste. Almeno non ha me.
Il teatro è da tutto esaurito. Il pubblico è emozionato. Ad aprire la serata, uno dei musicisti di Sufjan: DM Stith, biondo chitarrista che ha scaldato l'atmosfera con 4 pezzi folk-country alla Jeff Buckley, con qualche velo di Bowie. Notevole e bravissimo. Così, uno si aspettava un concerto da Sufjan: uno che ha cominciato qualche anno fa a dirti "Come on and feel the Illinois" e poi voleva fare un disco per ogni stato dell'America. Molti pezzi li dedica a Dio, citando versi della Bibbia. Pazzo, ma pur sempre cantautore slow country, indiefolk.
Poi, nel 2010 tira fuori questo "The Age of Adz", molti pensano che la svolta elettronica non gli sia consona. In realtà, ha sfornato un album pazzesco, curatissimo e da 10 e lode. Chissà che farà dal vivo.
Ecco, dal vivo Sufjan ci ha fatto restare a bocca aperta. Undici persone sul palco, scenografie cosmiche, videoproiezioni di fumetti spaziali, due coriste ballerine che sembrano uscite da H&M. E' un vortice di colori, di suonini elettronici e campionamenti. Sufjan e la sua band sono tutti vestiti da astronauti (o cosmonauti, se preferite la versione sovietica) con tute dai colori fluorescenti. Appena uscito (cantando "Seven Swans") ha anche delle ali attaccate dietro. Uno spettacolo degno di Georges Méliès.
Onirico, visionario, schizofrenico. proprio come Royal Robertson, figura che il musicista spiega e di cui narra la storia tra un pezzo e l'altro: un artista americano scomparso nel 1997, affetto da schizofrenia e morto in solitudine nel 1997. Disegnava strisce da comic e grafic art a sfondo cosmico, era convinto che gli alieni stessero per arrivare a bordo di un'astronave guidata da Dio. E Sufjan, a partire dal'art work e dal titolo dell'album (che è una citazione di un suo lavoro) fino alla chitarra con su scritto "Royal", si è talmente innamorato di questo personaggio che ha improntato tutto il live sul suo immaginario. Le proiezioni, infatti, sono di Robertson e l'effetto è un po' da Kraftwerk con qualche rotella fuori posto. Meraviglioso.
Il live è un crescendo di emozioni, da un palchetto di un teatro in cui di solito fanno l'opera. Nel frattempo, sta per nascere mio nipote all'ospedale Maggiore di Bologna e io non ci sto più nella pelle. Fa tutto il disco nuovo, dilatando alcuni pezzi frullandoci il cervello. Chiacchiera parecchio, spiega che in questo nuovo lavoro ha lavorato molto sul movimento e sul collegamento col ballo: via, tutti cominciano a muoversi un po' come automi flessibili, a ritmo di musica. Ogni tanto spara delle frasi di cui lui stesso ride come un bambino. Tipo: "Ogni azione ha una reazione, l'universo è in armonia e noi dobbiamo essere pronti ad integrarci con lui".
Sms di mia madre: ancora nulla, domani le faranno una flebo per indurre le contrazioni. Ok. Arriva una navicella spaziale fatta con materiali di sicuro made in China, ma molto simpatici e che rendono perfettamente il livello della produzione: in pompa magna, ma low cost. Perfetta filosofia indie, insomma. DIY o lo-fi. Quel che volete.
Una delle coriste si infila su per i palchetti, e sbuca arrampicandosi, restando in bilico e continuando a cantare. E' "Impossible soul" (il pezzo che pure sul disco dura 25 minuti),
fatta in tutte le declinazioni del power-pop, power electro. Pure col vocoder! In platea si alzano e ballano.
Escono. Rientra prima lui da solo. Fa qualche pezzo dei precedenti album, al piano e con la chitarra.
Poi, la magia. Parte "Chicago", escono palloncini colorati e il finale è un mondo sempre più fiabesco, un po' da Teletubbies, in cui è inevitabile pensare alla felicità che un concerto del genere può infonderti. Un artista come pochi ce ne sono in giro, che mette su uno spettacolo a 360 gradi, si regala al pubblico anima e corpo e pur nella sua essenza indipendente realizza qualcosa di grandissimo. E' il concerto del decennio, ne sono sicura.
Esco dal teatro, chiamo mia madre. "Le stanno facendo il cesareo d'urgenza". Si vola a Bologna, di corsa. Un po' d'ansia, chissà come andrà. A 00.44 mio nipote era già nato e io capisco che nella stessa ho assistito a due eventi indimenticabili.
Conservo il biglietto e appena cammina gli regalo "The Age of Adz". Crescerà bene.
Scheggia
29 maggio 2011
TomBoy: musica da un mondo onirico
Parlavamo delle tempistiche dell'album, il primo singolo è datato addirittura 13 Luglio 2010 ed è TomBoy, il pezzo che da il nome a tutto l'album e che probabilmente rappresenta il manifesto, del disco e dello stile compositivo dello Psichedelico Polistrumentista di Baltimora. Un incedere cadenzato, scandito da un controtempo voce-campionatore che colpisce un indifeso ascoltatore che tende a concentrarsi su quelle domande che TomBoy fa a sé stesso. Niente da dire, gran pezzo, ma è tutto il disco che colpisce per maturità, ritmica e quel pizzico di calma che sa infondere senza mai annoiare o far assopire le orecchie che si attaccano assetate all'auricolare.
TomBoy il primo singolo ma anche la seconda canzone dell'album che invece inizia con You Can Count on me, psichedelia sintetica di sola batteria e voce che introduce l'ipnosi come elemento caratterizzante di questa festa fatta di meraviglia.
Subito dopo la citata TomBoy seguita da Slow Motion: ripetitività nelle voci e crescendo nella base.
Le onde del mare si fanno spazio in Surfer's Himn presentando un paesaggio vergine oltre che brutalmente rilassante che si sviluppa in un impennata non troppo intrusiva.
Con Last Night at the Jetty si raggiunge il picco dell'opera: martellante ballatona onirica che lascia puntualmente in bocca parole dal sapore amaro come quello di un sogno spezzato.
Si arriva senza fiato alla conclusione di questo quintetto, ma l'arco sintetizzato di Drone dà una nuova sferzata ancor più stordente, così come la chitarrina Alsatian Darn.
Il pianoforte che caratterizza Scheherezade non detta che la frenata finale di un disco che continua con le basi un po' più omogeneizzate e amichevoli di Friendly Bracelet e Afterburner. Si conclude con Benfica, pezzo dedicato alla squadra di quella città che ha determinato una svolta nella vita dell'artista statunitense che proprio nella città lusitana ha trovato quello "slow moving kind of place" che gli ha permesso di far maturare definitivamente la propria creatività.
Un disco importante, che ha accompagnato le mie orecchie quasi quotidianamente dal giorno della sua uscita fino a questo preciso momento.
Per digerirlo ci si mette un po' ma una volta scomposte tutte le molecole che lo costruiscono non resta che la soddisfazione di un'opera complessa ma emozionante in ogni singola nota.
Il voto è alto, così come la voglia di andare a vedere un concerto di Panda Bear non appena capiterà sotto mano.
28/30
Stefano Tommie Nucera
24 maggio 2011
Scusate Il Ritardo
Mi aspettavo molto dalla band dei fratelli Dickinson, visto l’eccellente concerto a cui avevo assistito a Castel San Pietro Terme (BO) il 27 maggio del 2007. Il Blue Note è un bel locale, spazioso, con un’ottima acustica, anche se l’atmosfera è un po’ fighetta e freddina: certo non il massimo per un concerto di blue-rock… Comunque grande è il mio stupore quando arrivano sul palco i due fratelli senza l’apporto del ciclopico bassista Chris Crew. Oggi il duo chitarra e batteria va di gran moda, White Stripes e Black Keys docet, ma francamente io li preferivo in tre. Soprattutto nella riproposizione delle canzoni dell’ultimo ottimo album, Keys to the Kingdom, la mancanza di Chris si è sentita eccome. Quindi non del tutto convincenti Let It Roll, Ain’t No Grave e soprattutto The Meeting (d'altronde è difficile far dimenticare il controcanto di Mavis Staples…) che fanno decisamente più bella figura nelle arrangiate versioni da studio. Le cose vanno decisamente meglio quando i nostri affrontano i classici del North Mississippi Hill Country Blues, nati per essere suonati in rustici juke joint a volte proprio con solo chitarra e batteria. E allora finalmente ci gustiamo una devastante versione di Goin’ Down South del maestro R. L. Burnside e un’energica Shake ‘Em On Down di Mississippi Fred McDowell. Divertente anche la parentesi acustica in cui i due fratelli, imbracciate le chitarre, ripropongono sonorità vicine ai set unplugged degli Allman Brothers Band. Dopo un’ ora e mezza, poco per il loro standard, Luther, alla chitarra elettrica e Cody, alla batteria, ci salutano. Un concerto con molte ombre e qualche luce, che non regge il confronto con lo splendido live act di Castel San Pietro, dove fra le alte cose suonarono per più di due ore. Dopo un po’ di ricerche in rete non sono riuscito a capire se quella a due è una formazione momentanea o una scelta definitiva. Io spero per la prima ipotesi e do un 26/30 al concerto più per la grande stima che nutro nei confronti di un eccellente chitarrista come Luther e di un ottimo batterista come Cody, che per la riuscita della serata.
Massimo Daziani
2 maggio 2011
Perle da un recente passato - Vol.3
25 aprile 2011
L’incoronazione della Regina di Cuori
Durante l’esecuzione dei brani la tensione fra il pubblico è palpabile: una tensione positiva, dettata dalla consapevolezza di assistere ad uno spettacolo unico, frutto del talento di un artista vero; il silenzio è assoluto, nessuno vuole farsi sfuggire nemmeno una nota della performance di Grant. E poi, alla fine di ogni canzone, un lungo, sentito e liberatorio applauso. Dopo un’ora e mezza di concerto, che anche nelle puntuali spiegazioni del nostro si rivela un continuo flusso emozionale, John Grant ci saluta calorosamente e se ne va. Usciamo nella dolce notte primaverile, consapevoli di aver riposto bene la nostra fiducia di appassionati e già orfani di cotanta esperienza musicale. Ma non tutto è perso: ci rimane la consolazione di una manciata di suoi ottimi dischi con gli Czars e un album solista capolavoro. E non è poco in questi nostri tempi bui…
Voto: 29/30
Massimo Daziani
15 aprile 2011
Uno strano trio che si diverte
Era l'estate del 1998. Dopo l'esame di maturità andai qualche giorno in vacanza a Rimini con alcuni amici. Qualche amico più grande di noi ci aveva consigliato di andare al Melody Mecca, una discoteca in cui si ballava musica afro.
Nel locale il “chimico” andava per la maggiore. Durante la serata mentre eravamo a fumare nel giardino, siamo stati avvicinati da uno strano tipo, non saprei dire quanti anni avesse, si faceva chiamare Babe, aveva ormai pochi denti e l'aria di chi ha provato ogni tipo di droga. Siamo stati a fumare con lui, a prenderlo un po' in giro e ad ascoltare i suoi strampalati racconti. Diceva di far parte di un gruppo di poche persone che a partire dalla fine degli anni '80 avevano fatto diventare famosa la Baia Imperiale, di avere a casa una discografia sconfinata di musica elettronica, tra cui “quattromila” dischi degli Orb.
Era la fine degli anni '90, gli anni del ritorno del rock duro e puro ma anche quelli in cui dall'Inghilterra erano arrivati il brit pop e lo shoegaze, la scena elettronica, l'acid jazz: l'ecstasy e la club culture avevano invaso l'Europa.
Prima di sentire quel nome uscire dalla bocca di Babe, avevo già sentito parlare degli Orb su Rock Star, ai tempi avevano pubblicato un disco dal titolo Orbus Terrarum. Non li ascoltavo allora, come non li conoscevo fino a poco tempo fa. Adesso li ritrovo in questa pubblicazione nata in collaborazione con David Gilmour, esponente e ex membro di un gruppo che forse più di molti altri ha anticipato le atmosfere, le idee e le strutture della musica elettronica. E' stato curioso sentire come si sono incontrati due stili simili per attitudine ma certo diversi per questioni anagrafiche.
Come si parla di un disco composto da due tracce rispettivamente della durata di 28'42” e di 20'12”? Come si giudica la composizione? Lo si ascolta e basta, nella sua naturalezza, anche perchè Metallic Spheres ha l'aria di una jam session, si impasta con l'aria intorno, è atmosfera. In realtà i brani non hanno strutture omogenee ma sono più simili a collage di varie composizioni: si inizia con una chitarra slide alla Matte Kudasai dei King Crimson, per andare verso un crescendo di ritimica elettronica, orizzontale, come un tappeto, su cui si distendono tastiere veramente floydiane. Poi le chitarre passano in secondo piano, per lasciare il posto alla parte ritmica su cui si inserisce un accenno di cantato e via dicendo, verso un bridge folkeggiante in finger picking, a seguito del quale la chitarra elettrica di Gilmour a suon di slide fa partire una sorta di secondo movimento, come in una composizione classica.
Ripeto, non lo si descrive, lo si ascolta, possibilmente da soli o tutt'al più in compagnia intima. Consigliato.
Voto: 29/30
Matteo Innocenti
28 marzo 2011
Good News From Dixie’s Land, parte seconda
Ecco un diamante grezzo della Dixie’s Land: Lucinda Williams. Da più di trent’anni questa figlia del Sud ha saputo toccare le più fragili corde del nostro animo con la sua arte sonora , grazie ad un songwriting che narra di disperazione, amori, perdite, cadute e resurrezioni, con una voce indolente e sofferta che è figlia del padre di tutti i beautiful losers, Hank Williams. Questa Dixie Lady ha pubblicato uno degli album più belli della sua già gloriosa carriera, Blessed, quasi una summa della sua estetica musicale, disco in perfetto equilibrio tra tempi rock e dolenti ballate, tra spirito country e contaminazioni black. E su tutto spicca la qualità sopraffina di queste canzoni. Si parte energici con il rock di Buttercup, ci si commuove con Copenaghen, ballad che è pura emozione in forma di note, dedicata al suo manager Frank Callari, scomparso il 26 ottobre del 2007. Uno dei brani più belli dell’album è Born To Be Loved venata di blues, con un lavoro delizioso di Rami Jaffee all’organo Hammond a cui risponde in maniera sopraffina uno strepitoso Greg Leisz alla chitarra elettrica. Ma il momento più alto del disco è quella Seeing Black dedicata, in modo amorevolmente rabbioso, al grande Vic Chesnutt. La rabbia di un’amica a cui non è piaciuto per niente il modo in cui Vic se n’è andato, lasciando un grande vuoto dietro di sé (sono parole che la nostra ripete in tutte le interviste, se interpellata sull’argomento). Lucinda quando canta “ When you made the decision to get off this ride/Did you run out of places to go and hide/Did you know everybody would be surprised/When you made the decision to get off this ride” esprime il dolore di tutti gli amanti del grande Chesnutt e l’eterna, umana incapacità di accettare la morte: semplicemente da brividi. E se questo non bastasse ci pensa un incredibile Elvis Costello a chiarire definitivamente la dolorosa incredulità del testo di Lucinda con un assolo di chitarra di rara intensità. Insomma un disco consigliatissimo, da ascoltare ad occhi chiusi, per trovare la strada che ci porti fuori dal tunnel del dolore, per uscire a rivedere la luce di una possibile palingenesi. To Be Born Again.
Voto: 29/30
Storie del Sud, storie che narrano di un’ umanità in cerca di se stessa. Josh T. Pearson nel 2001 si fa conoscere come leader dei Lift To Experience, pubblicando uno splendido album, The Texas-Jerusalem Crossroads. Poi più nulla. Ecco che ricompare dieci anni dopo, con una barba che manco un patriarca e, quasi in solitario, pubblica un disco intenso ed essenziale, frutto di un songwriting fragile e crepuscolare. Un album che fa sua l’estetica musicale di Townes Van Zandt, scarnificandola però all’osso. I brani di questo disco sono lunghi, acustici, mettono a nudo i tormenti di un amore finito (come nella superba Woman, When I've Raised Hell), le passioni e i conflitti interiori del suo autore, quasi in uno stream of consciousness. A volte sono resi ancora più struggenti dalla presenza degli archi (come il violino nella meravigliosa Country Dumb) . Un disco difficile, lento, oscuro, da ascoltare con attenzione, maledettamente coraggioso nei nostri tempi veloci. E proprio per questo prezioso e memorabile.
Voto: 28.5/30
6 marzo 2011
Good News From Dixie’s Land
Aaron Neville - I Know I've Been Changed - Tell It Records 2010.
Quando a fine anno ho saputo che Aaron Neville aveva fatto uscire un disco gospel prodotto da Joe Henry (prima o poi bisogna beatificarlo..) e che il nostro era accompagnato al piano da sua maestà Allen Toussaint, ho avuto un tuffo al cuore e ho sperato di ascoltare grande musica. E vi assicuro che non sono stato deluso. La voce angelica di Aaron con il suo inconfondibile falsetto canta una manciata di classici con un’intensità unica e una classe cristallina. La scelta di Henry è quella di un suono scarno, blues, grazie anche alla presenza di un ottimo Greg Leisz alla dobro e lap steel, di Chris Bruce alle chitarre, di Patrick Warren alle tastiere e di una base ritmica calda ed essenziale (il grande Jay Bellerose alle pelli e David Piltch al basso). Difficile scegliere tra queste dodici perle. Possiamo ricordare una dolce Stand By Me, la gioia contagiosa di I Done Made Up My Mind, un’intensa I Know I’ve Been Changed con Toussaint che dà lezioni di piano a tutti. In Don’t Let Him Ride i ritmi si alzano e dietro al piano boogie di Allen si scatenano i solo di Bruce, mentre un coro mantiene alto il climax. Splendida You Got To Move con il pianismo di Toussaint che strizza l’occhio al maestro Professor Longhair. Oh Freedom è un balsamo per l’anima con quell’inizio a cappella e quella slide guitar che sottolinea la dolcezza delle blue notes di Toussaint. Meetin’ At The Building con contrabbasso, battito di mani e una dolce chitarra acustica è pura, semplice eleganza. Insomma un disco splendido che ci rende migliori al solo ascoltarlo. In God We Trust…
Voto: 29/30
North Mississippi Allstars - Keys To The Kingdom - Songs Of The South Records 2011.
Questo trio, composto dai fratelli Dickinson (Luther chitarra, Cody batteria) e dal bassista Chris Chew, sono ben quindici anni che ci delizia con le sue proposte musicali. I nostri, inizialmente paladini di quel blues delle colline del Mississippi Settentrionale (rappresentato da artisti del calibro di R.L. Burnside e Junior Kimbrough), hanno saputo arricchire il loro sound con altre contaminazioni musicali. Con questa nuova fatica discografica si compie un passo ulteriore verso la ricerca di uno stile più variegato. I NMA si dimostrano più attenti alla forma canzone, meno ancorati al ruvido boogie-blues suonato nei juke joints del North Mississippi. Così in questo ottimo album, dedicato alla memoria del padre dei frateli Dickinson (il grande musicista, sessionman e produttore Jim) convivono brani country rock (pensiamo alle ballate elettriche How I Wish My Train Would Come e Hear The Hills), pezzi dal sapore gospel (vedi lo splendido cammeo di Mavis Staples in The Meeting), l’immancabile North Mississippi Hill Country blues (Let It Roll), energici rock blues (New Orleans Walkin' Dead, This A'way, Ain't None O' Mine) e deliziosi intermezzi acustici country-blues (Ol' Cannonball). Un disco vario e convincente.
Voto: 28,5/30
17 febbraio 2011
Hey hey, my my, Rock and Roll can never die..
7 febbraio 2011
My Radio Boy@Aut Aut Roma
TITOLO
My Radio Boy, 21 gennaio 2011@Aut Aut, Roma
SVOLGIMENTO
L’Aut Aut è un localino molto underground (se non suoni il campanello non entri) nell’altra Trastevere, quella lontana dal delirio di americani che affollano locali spenna-turisti.
I My Radio Boy sono Rupert, Mariano e Basile, fanno electro pop e anche tanto spettacolo. Il trio apre le danze con una perla della nostra televisione trash: lo sketch della famosa “borra” di una spettatrice de “La Prova del Cuoco”, firmato Antonellina Clerici. E partono subito le prime risate.
I My Radio Boy sono così, divertenti e irriverenti, sembrano la perfetta colonna sonora per una festa anni ’80 piena di “Palloncini”, un misto tra le sonorità e la scazzoneria demenziale degli Amari e gli Ex Otago. L’approccio live è però senz’altro più diretto col pubblico, assolutamente non nordico-fighetto come quello dei gruppi sopra citati (e chiudo qui la velata polemica). Ma ritorniamo ai nostri My Radio Boy che strizzano l’occhio agli Animal Collective più acidi e lisergici e che sul palco si divertono e divertono il pubblico che non può fare a meno di accennare movimenti di anca e teste a tempo di musica.
Sanno fondere la semplicità e la leggerezza adolescenziale dei testi ad una musica che è sapientemente suonata e stratificata. E allora improvvisamente ritornano in mente oggetti che hanno accompagnato la nostra infanzia, dai palloncini alle biglie da spiaggia e alle bolle di sapone in una sintesi perfetta di recente passato e presente.
Il gran finale del concerto? Giacca di pallet e braccio alzato, immobile in mezzo al pubblico per 5 minuti buoni; uno dei My Radio Boy ci lascia così, col sorriso stampato in faccia e tanti ritornelli che ronzano in testa.
CONCLUSIONE
La prossima volta non perdeteli dal vivo (17 febbraio al Circolo Degli Artisti prima degli Skiantos).
28/30
POSTILLA
Guardatevi questo video esilarante, "Fuga d'amore per organo solo"
Signorinza Zeta
23 gennaio 2011
My Favorite Things, ultimo atto
Il Ritmo Dell’Anima
New Sounds Of Tradition
Spaghetti Rock
Eccoci approdati alle patrie coste. Ci piace ricordare il corposo suono da colonna sonora anni 70 riproposto in modo magistrale dai Calibro 35, veri paladini della Blaxploitation all’italiana, il blues rurale dei Black Fridays, il folk rock arrabbiato dei palermitani Il Pan Del Diavolo, il rockabilly spettrale dei Movie Star Junkies, il folk spruzzato di psichedelia e blues (con attitudini canterburiane) del piccolo grande Samuel Katarro, il pop rock che guarda alla tradizione della canzone d'autore nostrana nel ciclopico disco dei Pertubazione e nel malinconico album dei milanesi Amor Fou. Degli altri come sempre vedere alla voce recensioni.
Jazz & Fusion
Blues Power
Se il Latte si dovesse rivelare Acido...
Small Craft in a Milk Sea - Brian Eno (Warp 2010)
Perché stiamo parlando assolutamente di un mostro sacro.
È Brian Eno che nelle sue composizioni ha sempre tirato fuori il meglio in circolazione.
Non lo potrei mai definire un musicista Brian Eno, Brian Eno non è un musicista (lo dice anche nel suo libro Music for Non-Musicians), Brian Eno è semplicemente un genio poliedrico, colui che fra composizione informatica, campionamento analogico e suoni digitali non si è mai tirato indietro dal produrre capolavori. Un artista che dichiara di essersi ispirato per la sua musica a La Monte Young e a Terry Riley, che ha collaborato con tutti i più grandi musicisti della sua epoca (e non parlo degli U2) può solamente essere definito un guru. Per me lo è.
Certo, sto sicuramente girando intorno al problema, una questione in questo caso si chiama Small Craft on a Milk Sea, produzione Warp di un tardo 2010 che solo oggi trovo il coraggio di recensire per ovvi motivi.
Erano anni che gli ambienti underground parlavano di una prossima collaborazione stratosferica fra l'etichetta più sfavillante del panorama indie-elettronico e il più grande compositore digitale di tutti i tempi. Va da sé che all'uscita di un simile lavoro l'emozione è stata tangibile.
Il primo pezzo del disco Emerald and Lime, lascia senza fiato. È l'incipit ideale a qualcosa che ti aspetti ampio di argomenti, di suoni, di narrazione. "Questo disco è una fucilata" ricordo di aver pensato. Mi incuriosivano questi suoni un pò Matmos (the West) un po' psichedelia settantastyle. Il resto però, invece, che continuare con le emozioni, è stato un declino inesorabile.
Il secondo brano Complex Heaven suona banale e tedioso, l'omonimo Small Craft on a Milk Sea semplicemente incompleto. Poi ci sono quegli attacchi che non hai idea di dove vogliano andare a parare Flint March, due minuti scarsi di presunzione sonora. Ok mi fermo qui, non stroncherò tutte le tracce una per una, però non riesco a capire perché un creatore di algoritmi di newtoniana fama si sia abbassato a tratti a scopiazzare artisti talentuosi sì ma pur sempre suoi allievi.
Invisible non è male, ma arriva proprio alla fine del disco.
Mi dispiace Brian, sai quanto è grande la mia stima nei tuoi confronti. Ma nulla può salvare questo disco. Davvero Nulla!
Non lo Giudico
Tommie
18 gennaio 2011
My Favorite Things, parte seconda
New Classics
Ormai ci sono musicisti che certo non possiamo più considerare degli esordienti; il loro valore artistico è tale, che ogni uscita suscita grande aspettativa. Sono i nuovi classici: personaggi come Antony Hegarty, che anche stavolta ha saputo toccare le corde più profonde del nostro animo, come Damien Jurado che ci ha regalato un folk-rock di nostalgica dolcezza, gruppi come gli Arcade Fire, che hanno messo d’accordo tutta la critica musicale con un rock onesto che racconta storie di sobborghi metropolitani, come i Broken Social Scene con il loro indie-rock arcobaleno, come i Liars che all’opposto ci regalano un affresco rock inquietante ed oscuro, come gli Shearwater con il loro folk rock sontuoso e ambientalista. Gli Spoon continuano a sfornare lavori multiformi che, pur attingendo alla tradizione rock, sanno essere sempre originali, i BellRays hanno ancora energia da vendere e sanno come sempre mischiare in maniera mirabile punk&funky, hard-rock&soul, i Coral ci regalano un’opera di struggente bellezza, omaggio ai suoni del passato (leggi California anni 6O), i National continuano con il loro pop elegante e solenne, dietro la sigla Wovehand si cela David Eugene Edwards che, lasciatisi alle spalle i mitici 16 Horsepower, ci delizia con un country-folk malato e oscuro, venato di screzi psichedelici. A dire la verità la veterana Natalie Merchant poteva tranquillamente far parte degli Oldies But Goodies, ma si tratta pur sempre di una signora(artista sopraffina) e non era carino metterla tra i vecchi leoni... Di lei e degli altri non citati in queste brevi note potrete cercare alla voce recensioni.
E’ innegabile che i musicisti americani abbiano sempre avuto un rapporto semplice e diretto (leggi per nulla conflittuale) con la propria tradizione musicale. Nel corso del tempo la critica specializzata si è spesso ingegnata nel coniare nuovi termini (american folk music revival, country rock, outlaw country, americana,alternative country) per spiegare questo indissolubile legame che unisce artisti giovani con musicisti del passato, l’antico con il contemporaneo. Sta di fatto che ancora oggi continua ad esserci questa attrazione fatale per il suono tradizionale; dunque anche quest’anno sono usciti ottimi album che prendono ispirazione dalle musiche che hanno sempre echeggiato nelle grandi praterie del Nord America. I giovanissimi californiani Avi Buffalo con il loro omonimo esordio sono stati accostati al suono indie-rock di band come gli Shins, ma è indubbio che ci sia un retrogusto anni sessanta che richiama ai grandi protagonisti del country-rock (Neil Young e Byrds in primis), i Band Of Horses si confermano gruppo dal suono suggestivo con le loro splendide armonie vocali, il “maestro” Bonnie Prince Billy si fa accompagnare dai Cairo Gang (ovvero Emett Kelly & friends) per rendere elettrico il suo scarno songwriting, creando un suono con suggestioni alla CSN&Y, i Deer Tick ci conquistano con un folk-rock sporco e malinconico, i Delta Spirit, provenienti da San Diego, rileggono con sincerità freak il folk dei padri (Dylan su tutti). Justin Townes Earle, Patrick Park e Ray LaMontagne, ognuno con il proprio stile, rinverdiscono la secolare tradizione dei folk singer; anche Walter Schreifels, proveniente da esperienze musicali lontane anni luce dalla musica popolare americana (leggi hardcore), si mette in proprio e si lascia ammaliare dalle sirene dell’alt country, con ottimi esiti, come pure nel disco dei redivivi Radar Brothers si sente più decisa una vena di americana. Phosphorescent, ovvero Matthew Houck, autore di un’opera matura, impreziosisce il suo stile con sapori country-rock, grazie alla presenza di una strumentazione ricca (a volte sono presenti anche i fiati). I Pernice Brothers creano un disco delizioso che riesce a far convivere con grazia sonorità country e tentazioni pop. Per finire citiamo i Truth And Salvage Co., prodotti da Chris Robinson dei Black Crowes, autori di un disco di canzoni ben scritte, dal sapore country, con aromi southern e i Wooden Wand giovani eredi del country maledetto di scuola Hank Williams. Dylan LeBlanc è stato già celebrato in fase di recensione (vedere Emozioni d’Autunno…).
Non ho nessuna intenzione di addentrarmi in un universo musicale sterminato come il metal. Ci vogliono gli esperti del settore. Però qualche volta riesco ancora a pescare del buon sano hard-rock che mi riporta alla mia infanzia musicale, alimentata dai classici Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath… E allora prendiamoci una cura ricostituente di energia con i Black Label Society di Zakk Wylde, autori di un disco potente a cavallo tra hard e metal, con lievi sfumature southern, oppure rinfranchiamoci con i canadesi Danko Jones, fautori di un rock’n’roll ad alto voltaggio. Se amate le sonorità stoner debitrici del suono sabbattiano non lasciatevi sfuggire il disco degli Sword, mentre un altro veterano del doom metal, il funambolico chitarrista Scott “Wino” Weinrich, ci offre un disco quasi completamente acustico che svela la sua anima più rock.
15 gennaio 2011
My Favorite Things
Eccoci con vecchi leoni che ruggiscono ancora. Mi piace segnalare il delizioso omaggio a Gershwin di Brian Wilson (ormai del tutto recuperato e protagonista di una splendida seconda giovinezza artistica), la grande classe di Dr John, che sforna un disco dal sound denso e limaccioso come il Mississippi che sfocia nella sua natia New Orleans, un Neil Young mai domo, un John Mellencamp che si abbevera alle fonti della musica popolare americana, l’intenso testamento musicale lasciatoci da Rowland S. Howard, la splendida rilettura unplugged dei loro classici fatta da dei Black Crowes in stato di grazia, il ritorno convincente degli Swans, l’energia elegante di una storica jam band come i Widespread Panic. Degli altri andare a vedere alla voce recensioni…
Nuove generazioni soniche crescono e ci regalano dischi importanti che rivitalizzano la nostra passione musicale. I Beach House si confermano con il loro elegante pop onirico, Lone Wolf ci ammalia con il suo folk crepuscolare, i Morning Benders ci cullano con un pop-rock venato di folk, i Pontiak non sbagliano un colpo con il loro rock rinforzato da riff doom, spruzzato di blues e ammantato di suggestioni psichedeliche, i Quest For Fire avrebbero meritato di essere recensiti nei miei psychedelic dreams, i Suckers sfornano un ottimo esordio, i Wildbirds & Peacedrums sanno ancora stupirci, gli incatalogabili Yeasayer portano l’eclettismo musicale al potere. Per i Menomena volevo spendere qualche parola in più: i ragazzi di Portland ci regalano un piccolo gioiello di pop deviato, dove la capacità di manipolare i suoni non è banale gioco tecnico, ma arte al servizio della canzone. La loro capacità di uscire dagli schemi li ha fatti accostare a gruppi come i Tv On The Radio, i funambolici Flaming Lips o addirittura ai mai dimenticati Morphine (soprattutto per l’uso aggressivo del sax). Ma forse è ora di dire che siamo di fronte ad una band originale che va finalmente celebrata. Uno dei dischi più belli del 2010 (e non solo). Voto: 29/30. Degli altri si è già detto alla voce recensioni…
Nick Curran & The Lowlifes - Reform School Girl - Eclecto Groove Records ; Ted Leo And The Pharmacists - The Brutalist Bricks – Matador ; The Jim Jones Revue - Down House Your Burning - PIAS Recordings
Chiudiamo questa prima parte di my favorite things con quei dischi che fanno battere il proverbiale piedino. Abbiamo un potente distillato di rock’n’roll anni 50 con Nick Curran, vero clone vocale di Little Richard, l’indie-rock scanzonato di Ted Leo And The Pharmacists e, per finire in energica bellezza, il devastante sound della Jim Jones Revue (come se Jerry Lee Lewis suonasse insieme ai Sonics e all’allegra combriccola si unissero Iggy Pop e le New York Dolls…)
Massimo Daziani