23 marzo 2016

Godspeed You! Black Emperor live @ Atlantico Live, Roma 15 Novembre 2015



Nel buio pressoché totale che immerge l’Atlantico Live due componenti dei GY!BE entrano sul palco e cominciano a far vibrare dolcemente i rispettivi violino e violoncello immettendoci subito in un’atmosfera rarefatta e candida. La pace dei sensi è lì dietro l’angolo. Ad uno ad uno, i sette elementi che compongono la band, entrano on stage cominciando piano piano a farsi sentire ciascuno col proprio strumento, in un crescendo sonoro estatico che dopo qualche minuto si tramuta in pieno rumore bianco. “Muro del suono” rende bene l’idea. Il rumore prodotto ora dal combo, pur nella sua carica sperimentale e propositiva, sembra così “organizzato” che non si tramuta (non si tramuterà mai in tutto l’arco della serata) in puro caos fine a se stesso. L’iniziale Hope Drone cambia pelle e diventa quindi Storm, tratta dal primo disco, uno dei veri e propri cavalli di battaglia della formazione canadese. E’ evidente sin dalle prime canzoni esibite che il sound dei Nostri si concentra maggiormente sugli strumenti a corda (3 chitarre sempre in primo piano e violini sullo sfondo a tessere le armonie) e sul ritmo percussivo (due batterie messe in campo), i fiati che caratterizzano molti lavori del combo sono invece totalmente fuori dai giochi. 

(lo stupendo incedere in crescendo di Storm, una della canzone più belle dei Nostri)

Il palco rimarrà sempre in penombra, senza nessun gioco di luci a mettere in mostra i musicisti che nel frattempo si dividono tra chi sta a sedere e chi in piedi, prendendo ognuno con la massima serietà il proprio fare.  Sullo schermo retrostante prendono vita, in formato split screen, immagini poetiche, spesso fallate che mostrano paesaggi, animali e scene bucoliche in generale; immagini montate con stacchi molto lenti che non hanno nulla di invasivo. Il messaggio sembra chiaro: la musica viene prima di tutto, il resto è mero contorno. Peasantry or 'Light! Inside of Light! è la canzone che apre il capitolo dedicato all’ultimo album Asunder, Sweet and Other Distress passato in rassegna dalla band cronologicamente nella sua interezza. La musica live dei Godspeed You! Black Emperor è un coacervo ben calibrato di sensualità e magia, tensione e stati ansiogeni. Un’altalena di emozioni forti che gioca sull’incontro/scontro con il pubblico che viene preso per mano dal gruppo e viene guidato negli stadi più radicali ed emozionali dalle sette note. 

(la fantasmagorica e spettrale Peasantry or 'Light! Inside of Light! apre l'ultimo disco dei GY!BE)

Dal relax più puro e intimo si passa (spesso repentinamente) a paesaggi sonori marziali, estremi, dove trionfa molto frequentemente la pura alienazione. Un sound possente e monolitico che premia i crescendo per poi sfociare nel rigore puro. Non c’è traccia di sadismo nei GY!BE, anzi, c’è casomai la consapevolezza che la musica è un viaggio ipnotico dove non esistono mete o approdi certi. C’è ancora spazio per un inedito e per un’inquieta The Sad Mafioso prima di fuggire dalla metafisica della serata per tornare alla realtà. 

Marco 0f0 Giappichini

Sufjan Stevens live @ Teatro della Luna, Milano 21 Settembre 2015




(da Blow Up #211, rubrica "Visti & Sentiti" dicembre 2015)

La strumentale ed eterea Redford, brumosa quanto basta e suonata nell’oscurità della sala, ci introduce perfettamente al mood di una serata dove intuiamo subito che regnerà lo spleen agrodolce dell’ultimo atto a firma Sufjan Stevens: Carrie & Lowell. Sull’arpeggio iniziale di Death with Dignity si accendono le luci soffuse e si mettono in azione i 9 pannelli collocati dietro il palcoscenico, messi a mo di Pala d’altare ecclesiastico (casualità?) che proiettano scenette di filmini familiari in 8 millimitri, direttamente dall’archivio d’epoca della famiglia di Stevens, immagini che torneranno spesso nel corso della serata. E il live dell’artista statunitense che sta prendendo forma si può già ben riassumere così: un’esibizione accorata, tra il privato e il pubblico, in cui il mettersi a nudo pubblicamente diventa un’esigenza (un’urgenza?) per raggiungere una catarsi collettiva dove ognuno di noi (Lui/Noi) fa la sua parte mostrandosi in modo autentico per quello che è. 


(Death with Dignity apre l'ultimo disco di Sufjan)


Difficile infatti sottrarsi a questo compito che ha il sapore del mistico e del biblico quando sul palco ti si palesa davanti, in tutta la sua fragranza, Sufjan: un angelo mandato su questa terra da dio in persona (l’occhio di bue che spesso lo illumina potrebbe sembrare il suo occhio) per irrorare con la sua celestiale voce (si, pazzesca anche dal vivo) questi tempi bui. Essere atei non serve a niente, non hai scampo: dalle casse del Teatro della Luna si diffonde una delicatezza e una pace che sanno di universale; un flusso innodico comunque chiaroscurale, classico e leggero al tempo stesso. Coadiuvato dai quattro sodali chiamati ad accompagnarlo, Stevens complica, arricchisce e colora gli scarni arrangiamenti dell’ultimo album (esibito nella sua interezza) trasformando le canzoni da minimali che erano a vere e proprie “suite rock”, dove il crescendo diventa la formula musicale perseguita. Chitarre, mandolini, piano, laptop, rhodes, synth, fiati (tutti i componenti suonano tutto) e soprattutto percussioni e batteria (quasi assenti in Carrie & Lowell) trasformano questi brani facendoli diventare più appetibili e “divertenti” (passatemi il termine) in fase live, rendendo la serata imprevedibile e movimentata. Ecco così, per esempio, che All of Me Wants All of You diviene quasi psichedelica e The Only Thing cambia pelle in pezzo elettronico. Alla sola No Shade in the Shadow of the Cross è concesso il privilegio di rimanere nuda e cruda così com’è, chitarra e voce, mentre dietro viene proiettato in campo totale un paesaggio scoglioso da Mar del Nord che si tramuta in puro paesaggio mentale. 


(il video di No Shade in the Shadow of the Cross viene retro-proiettato anche nel live di Sufjan)



Siamo dalle parti del sublime o poco ci manca. Prima dei bis il songwriter, silente per tutta la serata fino a quel momento, si scusa con la platea se le sue canzoni sono “… so sad” ma che d’altronde quello è l’unico modo in cui riesce a comporre e esprimersi. Riusciamo a perdonarlo. Dopo una manciata di canzoni estratte dai suoi primi album viene affidata a Chicago, esibita in punta di piedi, l’onore di chiudere una serata salutata dal pubblico con una sentitissima standing ovation, rara per intensità e partecipazione, e un interminabile applauso. 

Marco 0f0 Giappichini