30 ottobre 2009

Quando un ritorno lascia l'amaro in bocca

Air, Love 2 (EMI 2009)

I francesi Air tornano due anni dopo “Pocket Symphony”, album con cui il duo cercava una svolta nel sound, purtroppo mai raggiunta completamente.
In “Love 2” gli Air hanno voluto lavorare da soli, registrando tutto l’intero album nel loro studio parigino senza nessun tipo di collaborazione esterna e con l’uso di molti strumenti analogici. Il risultato di tanto impegno è un album difficilmente definibile bello o brutto senza entrare in piena contraddizione.
Gli Air sanno regalare al pubblico perle di melodie struggenti e celestiali come “Heaven’s Light” in questo album che, ricordando i fasti di un tempo, fa sussultare e inneggiare al ritorno degli Air che tutti hanno tanto amato. Poi, però, qualcosa si rompe e il giocattolo non funziona più.
L’album è sicuramente un’opera raffinata, frutto del genio creativo di due mostri sacri della musica, però non è quello che ci si aspetta da chi ha composto “Moon Safari” nel lontano 1998. Se da un lato il talento rimane dall’altro è il contenuto che scarseggia, le idee nuove sono poche e le felici intuizioni si ripetono in lungo e in largo. Fortunatamente la classe innata con cui confezionano l’album è tale da offuscare all’ascoltatore poco attento i numerosi scivoloni e la prevedibilità di un sound sempre uguale a se stesso, sbiadito ricordo di un passato glorioso.
I fan continuano ad aspettare un altro capolavoro. Nel frattempo si accontentano di farsi prendere un pò in giro da un disco che rappresenta gli Air come una statuetta della Tour Eiffel in mostra in un Duty Free rappresenta la Francia.

23/30

Eleonora Zeta Zarroni

29 ottobre 2009

2 Sides of the Moon

Da una parte c’è una voce delicata che confina con la sensualità, dall’altra un canto da maschiaccio a dir poco conturbante. Due nazionalità a confronto, due approcci musicali agli antipodi, due nomi d’arte (o moniker... come va di moda ora) che lasciano il segno. Sono Annie Clark in arte St. Vincent dall’Oklahoma e Mica Levi detta Micachu dalla Gran Bretagna. In comune ben poco da spartire, diresti. Invece. Invece abbiamo a che fare con due delle menti musicali più geniali e più brillanti degli ultimi tempi. Due giovani artiste (quarantasette anni in tutto) che dopo anni di dura gavetta e tanto lavoro oscuro alle spalle si sono emancipate uscendo allo scoperto con due dischi preziosi e importanti. Due dischi accomunati da un fare e da un sentire la musica in modo moderno, libero e geniale.

St. Vincent – Actor (CD 4AD/Self, 2009)
Annie è, tra virgolette, la più classica delle due. La polistrumentista americana congegna un album di pop orchestrale, “sporcato” da schizzi rock ed elettronici, figlio senza dubbio della passata esperienza della Nostra trascorsa a suonare per mezzo mondo nella band di Sufjan Stevens e nei Polyphonic Spree. Con Actor siamo nei territori lievi e sublimi della fiaba. Una novella pop dove, come tutte le fiabe che si rispettino, non possono mancare episodi più scuri (per esempio Actor out of work) che fanno da contraltare a una solarità di fondo che pervade gran parte dell’Album (Laughing With A Mouth Of Blood su tutte). L’orchestrazione di Actor, curata nei minimi dettagli, è coloratissima e s’integra compiutamente con le basi elettroniche, centellinate alla perfezione, che danno risalto e forza alla delicata voce di Annie. Fiati, archi, piano e sezione ritmica s’intrecciano rincorrendosi di continuo in questo trasognante e sentimentale disco che unisce con forza folk, rock e pop a una forma di sperimentazione soft e per nulla ridondante. voto: 26/30.


Micachu & the Shapes – Jewellery (CD Rough Trade, 2009)
Inequivocabilmente quando metti per la prima volta sul lettore Jewellery di Micachu t’investe un marasma di informazioni musicali che ti lasciano a dir poco interdetto. Già dai primi accordi (se cosi si possono chiamare) di Volture ti chiedi se è questo il modo di suonare una chitarra. La voce biascicata di Mica fa il resto. Poi, dopo aver ascoltato in soli 2 minuti di canzone tutte le tendenze musicali degli ultimi vent'anni di storia, arriva il ritornello con quel ritmo danzereccio e quella melodia zuccherina che ti rimettono in sesto. Incominci allora ad accorgerti che sei di fronte ad una delle opere musicali più eccellenti e importanti di fine decennio. Tra l’avanguardia e il pop, dentro Jewellery c’è di tutto. Elettronica scazzona, punk inbufalito, hip hop multietnico, lo-fi anni ‘90, folk sghembo, rock d’assalto e tanto altro ancora. Tutte fonti d’ispirazione per questa riccioluta ragazza (classe 1987) inglese di nome Mica Levi, una (post)moderna figura luciferina che si diverte come una matta a ripercorrere la storia della popular music, rinnovandone di continuo gli spazi. Un’artista in fiore (il live lo evidenzia) che non tarderà a sbocciare completamente. voto: 29/30.

OfO

Dente, questo (s)conosciuto!! L'Intervista


Molti lo idolatrano follemente sin dal primo album. Qualcuno lo ha scovato in qualche pubbettino sperduto in provincia quando ancora era accompagnato solo dalla sua acustica. Altri lo hanno scoperto in seguito, magari nella compilation post-Sanremo degli Afterhours “Il paese è reale” (ovviamente il suo è il brano più bello del disco) oppure nel concertone del 1 Maggio di quest’anno (neanche a dirlo, la sua l’esibizione più brillante e “viva” dell’evento). La critica lo acclama da tempo. Tanti, i più, ancora non sanno di amarlo.

Condizione imprescindibile di un autore che avrebbe tutto per diventare il nuovo Pop-Hero nazionale ma che ha invece preferito rimanere in quella terra di mezzo di chi prende le cose come vengono, territorio di chi preferisce il lavoro rigoroso e coerente delle scelte personali alle facili scorciatoie da Tormentone. Il successo se vuole, arriverà da solo, non c’è fretta.
Tutto quello che ha, Giuseppe Peveri in arte Dente se lo è creato da solo, insieme al suo talento: dalle migliaia di fan che oggi “apprezzano” i suoi elementi pubblicati nel suo facebook personale, alle centinaia di supporter che oramai lo seguono nei suoi concerti sempre più frequenti e richiesti.
Chiaramente tutto questo con l’American dream ha ben poco a vedere. Casomai la “parabola” di Dente ha molto più a che vedere con l’italico “Precariato dream “ degli anni Zero, il sogno di riuscire a campare dignitosamente facendo quello che si ama: “ Non ho mai rincorso il desiderio del successo e non lo seguo neanche adesso, quello che m’importa è vivere serenamente facendo qualunque cosa che mi renda felice. Non m’importa il lavoro che faccio, fare il cantante non è un lavoro figo a prescindere, qualsiasi lavoro che ti fa stare bene e che ti fa alzare la mattina felice è bello”.
Al suo terzo disco e mezzo (considerando anche il suo Ep Le cose che contano, 2008), all’età di 33 anni, Giuseppe Peveri da Fidenza si può guardare indietro compiacendosi per quello che ha fatto fin’ora. Musica, semplicemente sublime.
Dente crea dipendenza (come citano i suoi ironici spot). Ce ne siamo accorti sin dal primo (semi) home-made album Anice in Bocca (Jestrai, 2006). “E’ un disco registrato in pausa pranzo a casa dei miei a Fidenza con mezzi di fortuna 4 piste a cassette, cuffie al posto del microfono tecnologia primordiale, sono canzoni spesso embrionali, 16 pezzi per 30 minuti.”
16 schegge di ballate folk sporche e intimiste che ti si appiccicano addosso sin dal primo ascolto. La chitarra acustica insieme alla soave voce del Nostro sono i protagonisti indiscussi dell’album. Non serve altro per mettere Dente in condizione di guardarti in faccia e di parlarti dell’Amore, il topos portante di tutta la poetica dell’autore, in un modo scanzonato e del tutto personale. Disfatte e trionfi vanno a braccetto in queste dolci poesie trasognate e surreali che attingono dalla nostra tradizione cantautorale per trasformarsi in qualcosa di altro. Qualcosa di nuovo e inatteso (voto: 25/30).
Suona ancora volutamente a bassa fedeltà Non c’è due senza te (2007), il suo secondo disco per Jestrai. L’(auto)ironia di Dente si fa qui più pungente e consapevole. Il suo realismo magico fugge di continuo le trappole del patetismo grazie alla forte vena tragicomica che pervade i suoi testi. Giuseppe gioca in modo semi-serio con le parole e il loro significato intrinseco, reinventandosi di continuo un personalissimo vocabolario che rimane tutt’oggi uno dei marchi di fabbrica del suo fare musica. Gli arrangiamenti del disco si fanno più robusti e incisivi, anche se ancora la matrice folk-acustica è quella più marcata (voto: 28/30).
Dopo quasi due anni passati interamente a suonare live accompagnato solo dalla sua fedele chitarra acustica “suonando ovunque in qualsiasi condizione tecnica” eccoci arrivati al 2009, l’anno della consacrazione. L’anno di L’amore non è bello, il suo ultimo disco che segna anche il passaggio da Jestrai a Ghost record. “Finalmente un disco registrato in studio, cosa che avrei sempre voluto fare. Sicuramente è un disco più curato e ragionato, non tanto nella composizione ma nella produzione. Per la prima volta ho fatto un disco sapendo che sarebbe stato un disco e che sarebbe uscito ascoltato e giudicato. I lavori precedenti erano cose casalinghe che facevo per me senza spere che sarebbero diventati dei dischi veri”.
Sempre in punta di piedi, Giuseppe ci consegna 13 preziose canzoni orchestrate alla perfezione che sono il proseguimento ideale di un’artista che se non ha trovato qui lo Zeitgeist, c’ è andato molto vicino. L’ album, grazie a quel tocco agrodolce tipicamente dentiano, è indubbiamente uno specchio del tempo, il nostro. Parlandoci di amori post-adolescenziali ma non ancora pienamente maturi, Dente si candida ufficialmente con “L’amore non è bello” a diventare il mentore della generazione “bambocciona” dei trentenni di oggi, quella che si è smarrita nel crescere, anche se non lo ammetterà mai: “Io mi sento uno che scrive canzoni in modo naturale. Scrivo quello che mi succede. Non credo di rispecchiare la vita del trentenne medio, non mi sono mai sentito parte della mia generazione e poi conduco una vita diversa dalla maggior parte dei miei coetanei. L'ho sempre fatto. Se poi la gente s’identifica in quello che scrivo mi fa piacere, intendiamoci” (voto: 30/30).

OfO