4 luglio 2011

Tra il serio e il faceto


JOHN WIESE + MATMOS
Roma, Circolo degli Artisti, 23 maggio
La serata comincia con il set granguignolesco di John Wiese, collaboratore fra gli altri di Sunn O))), Wolf Eyes, Merzbow. E’ subito un rimuginare di suoni e rumori sciaborditi e sconquassanti. Esperimenti di musica(?) sensiorale di provenienza harsch, informità di rumori monocromi e scurissimi, sorta di industrial bulimico che mangia se stesso e viene rigettato a noi. Il gioco è bello finché dura poco e 15 minuti a disposizione di Wiese sono più che sufficienti per farci entrare e uscire da quest’incubo sonoro che non lascia prede. La speranza che il duo di San Francisco sia più tenero nei nostri confronti è concretizzata quando i due entrano e si piazzano dietro la propria superconsole: Drew Daniel è vestito come uno straccione metallaro anni ’80 e di dirimpetto Martin Schmidt si presenta con un completino very chic da businessman (una sorta di parodia che simboleggiare la doppia anima ludico-seriosa del combo). Chiedendoci di fare silenzio, tra colpi a triangolo e campanacci, le luci si abbassano ed ha inizio il rito. I moog diventano spettrali, Drew mima balletti ascetici in piena trance performativa e nel frattempo entrano sul palco 8 personaggi con tanto di occhiali oscuranti e cuffie, che si posizionano dietro ad altrettanti microfoni. C’è chi solfeggia, chi gorgheggia, chi parlotta e chi canticchia - ovviamente ognuno rigorosamente per i fatti suoi – e si crea una specie di armonia innodica e ordinata coadiuvata dagli organetti distesi e oscuri messi in campo dai Matmos. Il pezzo finisce in una palingenesi di pace e quiete che contraddice il confusionario inizio. Alla fine sapremo che gli 8 elementi sono stati trovati a Roma il giorno stesso e le prove si sono svolte direttamente sotto i nostri occhi!  La seconda fase del live si apre con una canzone(?) che potrebbe stare benissimo in Supreme Balloon (anche se in quel disco non c’è): il moog e il touch sono i medesimi, le ritmiche pure. Sul filo tra il ballabile e il contemplativo lo show prende, piano piano, piaghe lisergiche (anche) per merito della psichedelia disegnata dal chitarrista che accompagna il duo, il video tutto pasta e colori sullo sfondo fa il resto. A sorpresa spunta fuori quella Treasure suonata nell’album Treausure State insieme ai So Percussion che live diventata un pezzo tropicálista; oggetti vari, rumori da giungla e schiamazzi scimmieschi fanno da corollario, trasformando la dolcezza del carillion iniziale in puro caos ferino. Da Supreme Balloon (l’ultimo disco ufficiale) i Matmos ci propongono Rainbow Flag. Il florilegio di colori e di felicità sbarazzina del refrain implode in momenti dark-noise (come un allucinogeno che ad un certo momento te la fa prendere male) per concludersi in una coda cow-folk, specie di parodia western cantata dai due protagonisti in salsa punk. Martin ci fa sapere che era una cover dei Buzzcocks (ci fidiamo?) mentre Drew (che parla un ottimo italiano) ci racconta una barzelletta abbastanza oscena. Tra momenti pansonichiani di puro delirio glitch (ecco che si rivede sulle scene Wiese), colte sperimentazioni in fieri e momenti dance-pop, il live si scioglie in un delirio di luci e ombre che sono archetipo delle dualità intrinseche nella musica dei Matmos. Due geni, seri e faceti, che fondamentalmente non sanno se prendersi sul serio o meno. A noi va bene cosi.
OfO