26 agosto 2010

Fotografie del Rock - Victoria Albert Museum, Londra


Le arti figurative mescolate alla musica hanno oggi due principali mezzi d'espressione: la fotografia e il video musicale.
MTV ha senza dubbio segnato, nel bene e nel male, il debutto di una nuova sinestesia nell'arte con videoclip che hanno fatto la storia sia della musica che della televisione. Ma a sancire l'inizio di questa mescolanza di creatività musicale e visiva, è stata la BBC con un programma che ancora oggi incolla allo schermo milioni di inglesi: Top of the Pops.
Nel 1964, quando per Capodanno la Broadcasting Corporation londinese vide inaugurare il proprio palco dai Rolling Stones, comparire in televisione divenne un obiettivo ambito per tutte le band, indipendentemente dal genere musicale e dal grado di puzza sotto il naso. Di fatto, all'utile della maggiore diffusione della propria musica grazie al nuovo mass media, si aggiungeva la possibilità di esplorare una nuova forma comunicativa, a metà strada tra il cortometraggio e le performances sul palco.
Prima quindi che la generazione di MTV fatta di hip-hoppari e teen-ager in delirio per i Tokyo Hotel facesse da spartiacque tra la musica commerciale e di seconda categoria e la musica per palati sopraffini, la televisione rappresentava un approdo importante per i musicisti di tutti i livelli.
Su questa scia e con un un approccio al mondo televisivo ben diverso da quello italiano, il Victoria Albert Museum di Londra ha ospitato per 5 mesi (da Aprile ad Agosto 2010) un'interessante collezione di foto scattate da Harry Goodwin dal 1964 al 1973 durante le registrazioni di Top of the Pops. Fotografia, televisione e musica fuse assieme in pochi centimetri di carta lucida.
Così, sulla stessa parete sono stati esposti stili diametralmente opposti ma che hanno in egual modo dato un enorme contributo allo stato attuale della musica. Bob Dylan, Jimi Hendrix, Aretha Franklin, i Beatles, i Clash, i Pink Floyd: questi alcuni dei 200 protagonisti delle foto esposte nella mostra My Generation: The Glory Years of British Rock.
C'è stato un tempo in cui apparire in televisione non significava ridursi a un'ospitata nei salotti della domenica né tantomeno degradare la propria produzione musicale davanti a una macchina da presa.
Oggi, però, solo alcuni video musicali (che si avvicinano certo più all'arte cinematografica che al trash televisivo) riescono a dare un plusvalore artistico alle canzoni. La fotografia rimane invece un mezzo visivo ancora elegante e raffinato. Persino un cantante di Amici di Maria de Filippi, se fotografato da un maestro-mostro come Harry Goodwin raggiungerebbe la soglia del decoro nonostante la tutina da puffo.

Ilaria Bu Montagni

17 agosto 2010

Teche Rock

Patto:”PATTO” (Vertigo 1970)
I Patto sono un gruppo inglese che si affaccia alla ribalta della musica rock nei primi anni 70, pubblicando solo tre dischi. La band è formata dal cantante Michael Patrick McGrath (in arte Mike Patto), dal chitarrista Peter”Ollie” Halsall, dal bassista Clive Griffiths e dal batterista John Halsey. I quattro musicisti pubblicano per la Vertigo il loro primo album nel 1970 intitolato semplicemente Patto. Difficilmente catalogabile, la loro musica si caratterizza per la capacità di mescolare il rock duro con il jazz e il blues; grande perizia tecnica che non cade mai in tecnicismo, brani fantasiosi dove spesso si sperimenta e si fanno bruschi cambi di tempo. Una voce calda e rauca come quella di Mike Patto che si intreccia con le magnifiche cascate di note della chitarra di Ollie Halsall. Con queste premesse è facile capire come all’epoca non riuscirono ad avere grande successo, anche se sono stati sempre ben accolti dalla critica e apprezzati dai colleghi musicisti. Ma andiamo più nel dettaglio di questo loro superbo esordio discografico. Il disco si apre con The Man, una “quasi” ballata dove la voce di Mike veste il brano di ruvidità blues; Ollie Halsall dà un tocco di eleganza jazz con il suo intermezzo di vibrafono. Il brano finisce con un’improvvisa iniezione di energia rock. Hold Me Back è un pezzo di hard rock con una base ritmica perfetta che permette ad Halsall di partire con uno dei suoi caratteristici assolo di chitarra funambolici e mai banali. Con la successiva Time To Die il folk-rock viene riletto alla maniera dei Patto con la voce bluesy di Mike e un approccio strumentale jazzistico. Con la potente Red Glow ritorna la tempesta sonora: pezzo hard dove Hollie si scatena con velocissime scale chitarristiche. San Antone passa attraverso vari generi (pop, progressive, jazz-rock) con una naturalezza e una abilità tecnica sorprendenti. I Patto con Government Man ci regalano un pezzo elegante tra sapori r&b e divagazioni jazz-rock, dove spiccano la ruvida ugola di Mike e l’affiatamento tra basso e batteria; il brano termina con un’originale coda strumentale di vibrafono. Con i suoi oltre dieci minuti di durata, Money Bag può essere considerato come un brano manifesto del Patto-pensiero. Il pezzo inizia con una lunga improvvisazione jazz-rock, dove spicca lo spettacolare Halsall, assecondato in modo egregio dalla base ritmica. Poi come d’incanto entra la voce morbida e sognante di Mike Patto e il brano si trasforma in una ballata pop-jazz. Il disco si chiude con Sittin’ Back Easy. Inizio dolce con la calda voce di Mike, poi c’è un’evoluzione in direzione hard-rock, di nuovo il pezzo si calma per ritornare ancora all’energia rock, in una esaltante ondulazione sonica.
Ci troviamo dunque di fronte ad un disco meravigliosamente creativo e imprevedibile, troppo avanti anche per quei tempi. In definitiva un capolavoro misconosciuto del rock. Compratelo!

VOTO: 29/30

Massimo Daziani

14 agosto 2010

Sudoeste Festival


Lascio Viseu (simpatica cittadina nel nord del Portogallo dove mi trovo per il Progetto Leonardo) alla volta di Zambujeira (ridente paesino nel profondo sud) per una buona causa: la quattordicesima edizione del Sudoeste Festival. Il programma è ghiotto, una settimana di bella musica (Flaming Lips, M.I.A., per fare qualche nome), ma, dovendo scegliere mi butto sulla domenica.

Si comincia verso le 19.30 con un gruppo portoghese, Peixe: Avião, che rompe il ghiaccio con un rock velato di elettronica e influenzato, soprattutto, da un tale Tom Yorke. La band si rivela all’altezza della situazione e ne approfitta per presentare canzoni del loro secondo album in uscita a Settembre.

A seguire Mike Patton’s Orchestra, non tanto per dire, visto che di orchestra si tratta davvero. Musicisti per lo più italiani (con il Gabrielli al sax e flauto traverso) ma anche elementi dell’Orchestra dell’Algarve. L’eclettico italo-americano porta in scena il suo più recente progetto Mondo Cane, dove ripesca classici della musica italiana degli anni ’50-’60. Il concerto, che segna il passaggio dal giorno alla notte, viene molto apprezzato dal pubblico portoghese, poco abituato a certi virtuosismi, che si scatena in cori dalla dubbia pronuncia italiana. Bisogna dire che anche Michele, nonostante gli anni passati nel Belpaese, ha ancora diverse difficoltà con la lingua di Dante!

Il testimone passa agli Air, dei quali riesco solo a vedere le ultime due canzoni (per fortuna anche le mie preferite): l’intramontabile “Kelly watch the stars” e una versione quasi irriconoscibile di “Sexy Boy”. Questo perchè l’esibizione dei francesi era in concomitanza con quella dei Beirut.

La band del trombettista e mentore Zack Condon si trova in Portogallo per la prima volta e quasi non ci crede all’entusiasmo del pubblico, che nonostante il piccolo e poco adatto palco, continua a riversarsi sotto il tendone. Si parte con "Nantes", "Elephant Gun", "Mount Wroclai (Idle Days)" e "Sunday Smile", che mandano la platea in estasi tra caldo afoso, testi cantanti a memoria e grida di isteria, infine regalano ai fans diverse nuove canzoni e l’atmosfera è talmente bella che nessuno vuol lasciare andare i musicisti americani. Sono sicura che i Beirut non si dimenticheranno del Portogallo nel prossimo tour!

Ecco il momento dei Massive Attack, e a questo punto della serata, il pubblico, secondo gli organizzatori, oscillava sui 41 mila spettatori. Il duo inglese, composto da Robert Del Naja e Grant Marshall, presenta le canzoni dell’ultima fatica “Heligoland”, accompagnato da diversi ospiti, quali: Horace Andy, Martina Topley-Bird e Deborah Miller. Quindi si parte con "Splitting The Atom", tra gli episodi più riusciti del nuovo album, e una "Unfinished" con acuti da brivido della Miller. Non mancano invece i classici "Teardrop", "Angel" e "Inertia Creeps", direttamente dal 1998, né la critica politico-sociale che scorre nelle pungenti proiezioni alle spalle dei musicisti. L’apoteosi finale è segnata da un’emozionante "Atlas Air" che mostra la qualità dei musicisti che accompagnano il duo.

L’headliner della serata è David Guetta e, come spesso capita in questi “festivaloni”, lascio la folla impazzita per far ritorno, soddisfatta, a Zambujeira Town.

Fox

11 agosto 2010

Like A Natural Woman

Durante queste ultime settimane mi è capitato di ascoltare ottimi dischi che avevano in comune solo il fatto di essere stati registrati da artiste donne (e vi pare poco…). Mi è sembrato giusto usare il titolo di una splendida canzone di Carole King, resa immortale dall’immensa Aretha Franklin, per questa veloce carrellata di musica che evidenzia la sterminata creatività del talento femminile.

Natalie Merchant - Leave Your Sleep - Nonesuch 2010
Per un disco così complesso ci vorrebbe ben altro spazio. Infatti la cantante ed ex leader dei 10,000 Maniacs pubblica un’opera ciclopica, della durata di quasi tre ore, con ben 26 brani distribuiti in due CD. Segnata dall’esperienza di mamma e ritrovatasi a narrare storie alla sua dolce bambina, Natalie ha pensato di raccogliere rime di antiche ninnananne, brani di scrittori come Robert Louis Stevenson, liriche di poeti come Robert Graves, Gerard Manley Hopkins, Christina Rossetti (per citarne solo alcuni) e ha rivestito il tutto con una musica sontuosa che attraversa tutta la multiforme tradizione musicale americana. Per l’occasione la Merchant si fa aiutare da più di cento musicisti, tra cui spiccano i nomi di Medeski Martin & Wood, Wynton Marsalis, i Klezmatics e i Fairfield Four. Tra ballate di ispirazione anglo-scoto-irlandese (The Walloping Window Blind, Nursery Rhyme Of Innocence And Experience), pezzi di hot jazz (The Janitor's Boy), ritmi reggae (Topsyturvey-World), eleganti arrangiamenti classici (Equestreinne), ritmi klezmer (The Dancing Bear), profumi country (If No One Ever Marries Me, Calico Pie), tentazioni etniche (The King Of China's Daughter) e inevitabili derive verso il blues e il soul (The Peppery Man, Bleezer's Ice-Cream), Natalie ci regala un’opera varia e affascinante che in forma di musica racconta la storia d’America. Vista la sua mole, quest’opera musicale necessita di diversi ascolti per essere pienamente apprezzata; rimane comunque una splendida testimonianza della prorompente creatività di una grande interprete. VOTO: 29/30

Martha Tilston - Lucy And The Wolves - Squiggly 2010
La prima cosa che colpisce di questa artista inglese è la sua voce: dolce e intensa allo stesso tempo, incontaminata e cristallina come acqua di sorgente. Ma la nostra Martha è anche una musicista sopraffina e sforna un meraviglioso disco di folk-rock . La Tilston piazza almeno quattro brani da antologia: The Cape, un vero colpo al cuore per piano e voce celestiale, Lucy ballata di struggente bellezza che non sfigurerebbe nel prezioso canzoniere della Mitchell, Who Turns degna del Van Morrison di Veedon Fleece e Searching For Lamb, canto dal sapore antico, interpretato a cappella con sottofondo di corvi… Una dimostrazione di classe pura. VOTO: 28/30 +

Silvia Manco - Afternoon Songs – Nuccia-Egea 2010
Affascinante sfida, quella intrapresa dalla pianista, cantante e compositrice salentina Silvia Manco: coniugare il jazz con la canzone d’autore italiana e la bossa nova. Quindi la musica nata a New Orleans diventa l’ideale punto di partenza per esplorare territori più vicini alla popolar music. Il rischio è quello di impantanarsi nelle pericolose sabbie mobili del pop-jazz. Ma la brava Silvia riesce a vincere la scommessa facendosi aiutare da un gruppo di abili musicisti, tra cui spicca il nome del batterista Roberto Gatto, qui in veste anche di produttore. La Manco è particolarmente attenta nel dosare gli ingredienti della sua proposta musicale: un uso della voce caldo e pacato, gli interventi solisti dei musicisti puntuali, mai invadenti, scevri di eccessi virtuosistici e sempre al servizio del brano. Mi piace segnalare dolci ballate notturne come Mad About The Boy, dove Silvia “gioca” a fare Lady Day, o come Afternoon Lover, vicino a certe sonorità alla Nat King Cole, le atmosfere brasiliane di Una Nuova Estate, la dolce melodia di Le Tue Parole (forse il più bello dei brani cantati in italiano), dove la Manco dimostra la sua classe al piano, l’abile compromesso tra improvvisazione e narrazione di Poinciana. Il momento più memorabile del disco è la superba Teardrop, aperta dalle dolci note di un piano elettrico e cantata elegantemente da Silvia; il brano si anima con derive quasi free, grazie alle improvvisazioni della tromba dell’eccellente Giovanni Falzone che risponde alle suggestioni soniche della chitarra di Fabio Zeppetella e al sax di Daniele Tittarelli, il tutto sostenuto dalla creativa base ritmica di Roberto Gatto e Dario Deidda. Sicuramente un’artista italiana da seguire con attenzione.

VOTO: 27/30


Massimo Daziani

7 agosto 2010

Musica Bene Comune

Non è poi così paradossale. In un mondo in cui nel XXI secolo la società si ritrova a combattere per rendere gratuito un bene primario e vitale come l'acqua, va da sé che un bene secondario (non in valore assoluto, ma in quanto prodotto e non materia-prima-sacro-dono-della-natura) come la musica sia necessariamente a pagamento.
Le note non sono libere. Non lo potranno essere fintanto che saranno emesse per riempire degli stadi pieni di banchini della birra o le tasche di qualche promoter.
Se la musica diventa un lavoro, se ad ogni brano corrisponde una quota SIAE, se un biglietto strappato apre le porte della dimora di Euterpe, beh... forse occorre fermarsi un attimo e riflettere.

Arte e artigianato. Non dobbiamo riesumare il povero Aristotele per sottolineare le enormi differenze tra questi termini che pure derivano dalla stessa radice linguistica. L'Arte è ispirazione, quella che in gergo mistico è frutto di un'anima indiata, di una manna esterna all'uomo e alla sua finitezza. L'Artista è una sorta di demiurgo che riesce ad emulare il divino e a trasporre nei suoi prodotti quel valore d'immortalità che la sua carne destinata a imputridirsi non potrà mai possedere. L'Arte segue la labilità del momento creativo e non può piegarsi alle cosiddette leggi del mercato. I grandi, gli immortali appunto, hanno vissuto di stenti e sacrificio. I diritti SIAE hanno arricchito le tasche dei loro eredi, tronfi mercanti dell'estro altrui.
L'artigiano è un esecutore -nobilissimo e stimabilissimo- di itinera procedurali. Ogni giorno la stessa routine: metodo, precisione, costanza.

Turnista = artigiano
La musica di oggi, su I-Tunes, ai festival e nei teatri con ingresso a pagamento è fatta di session player, alias i mercenari dell'esercito del pentagramma.
La musica si è fatta mestiere. Ci si campa a malapena, ma se ti ci metti d'impegno, almeno una mezza pagnotta alla settimana te la garantisce. Si sfornano cd a cadenza annuale come taniche di olio o bottiglioni di vino dopo il raccolto. Si applicano leggi della fisica e calcoli numerici per dare a ogni suono il giusto decibel. Si raccattano date per tutto il paese fino a s-cadere nelle sagre e nelle feste dell'unità giusto per visibilità e spiccioli. Si organizzano eventi, si creano contorni alla pietanza principale, si promuove e si scrive di un'Arte che forse non c'è più, che forse non c'è mai stata. Siamo di fronte, però, a un sopraffino prodotto artigianale.

Se la musica di oggi è in mano ad artigiani-turnisti-mercenari, è logico e coerente pagarsi un biglietto di 30 euro per un concerto o 10 euro per una manciata di minuti di melodie compresse dal formato mp3. E se tutto è sempre orientato al guadagno, l'Arte è semplicemente mandata a puttane.

Ilaria Bu Montagni

4 agosto 2010

Trasimeno Blues Experience

Cedric Burnside & Lightnin’ Malcolm; Otis Taylor; Francesco Piu; Dr. John & The Lower 911 – Trasimeno Blues 2010 – Passignano Sul Trasimeno (PG) e Castiglione Del Lago (PG) 23-24.07.2010

Arrivato alla sua 15a edizione, il Festival Blues che si svolge nei comuni del Lago Trasimeno è ormai uno dei più importanti in Italia, sia per il numero che per la qualità degli artisti coinvolti. Purtroppo per motivi vacanzieri non riesco mai a godermi tutti i concerti. Però quest’anno non mi sono fatto sfuggire una due giorni di altissimo livello. Si trattava del primo fine settimana del Trasimeno Blues…
Venerdì 23 luglio alle 21, nella suggestiva cornice della Pineta del Popolo di Passignano, si sono esibiti Cedric Burnside & Lightnin’ Malcolm, ottimo duo che propone una musica ricca di energia e che rilegge in chiave moderna il North Mississippi Hill Country Blues, rappresentato da grandi bluesman come T-Model Ford, Junior Kimbrough, Othar Turner e R.L. Burnside, di cui Cedric è nipote. Boogie-blues da ballare grazie alla macchina ritmica rappresentata dalla chitarra elettrica di Lightnin’ e dalla batteria di Cedric. I due se la cavano egregiamente anche alla voce e scaldano decisamente l’atmosfera con il groove sporco del loro blues ruvido e rurale, tipico dei juke joint. Sarà anche per la splendida location, con il palco montato sulla riva del lago illuminato da una luna quasi piena, ma ad un certo punto sembravamo magicamente catapultati in una notte stellata del Mississippi. E’ stata un’ora di puro divertimento. Il loro compito era quello di preparare il terreno per il successivo concerto clou della serata, quello di Otis Taylor: missione compiuta! VOTO: 27/30 +
Ormai considerato come uno dei più grandi personaggi del blues attuale, il cinquantaduenne Otis Taylor è soprattutto uno sperimentatore, sempre pronto a stupirci con percorsi innovativi e uso di strumentazioni originali. Dotato di una calda voce, si caratterizza per l’impegno dei suoi testi. La sua musica in qualche modo è un evoluzione dei ritmi ipnotici di chiara matrice africana che resero immortale il grande John Lee Hooker: ascoltare il recente e ottimo Clovis People (Telarc 2010) per credere. Ma Taylor contamina la sua musica anche con il folk, con il rock e con il country. Con questi presupposti, mi aspettavo molto dal suo concerto. E quando Otis è salito sul palco con la sua band alle 22.20, ho subito capito che non mi avrebbe deluso. La presenza della brava violinista Anne Harris creava subito un sound particolare, da rock-blues progressivo. Particolarmente riuscita una versione originale di Hey Joe, con in evidenza la chitarra acida di Jon Paul Starck Johnson. Ottima anche la base ritmica (Nicholas Amodeo al basso e Larry Thompson alla batteria) che sapeva egregiamente sostenere i brani, spesso vissuti come lunghe jam session, dove si esaltavano i solismi e le improvvisazioni della Harris e di Starck Johnson. Su tutto la voce stentorea di Otis, vero sciamano della serata. Dopo quasi due ore si torna a casa, ancora storditi da un’esperienza musicale di grande qualità. VOTO: 28/30
Sabato 24 luglio il festival si sposta a Castiglione del Lago. La giornata musicale si apre alle 18.30 con il concerto di Francesco Piu nella centrale Piazza Mazzini. Il chitarrista-armonicista sardo è stato protagonista di un brillante set live; ha dimostrato un’ottima tecnica chitarristica alternandosi alla sei corde acustica, alla dobro e alla lap steel. Buona anche l’interpretazione vocale. E’ stata una divertente performance, durata poco più di un’ora, dove Francesco ha saputo rivisitare, con il giusto feeling, alcuni immortali classici del blues. VOTO: 27/30
Ma il concerto evento di questo fine settimana e, forse, di tutto il Trasimeno Blues era quello del grande Dr. John alla Rocca Medicea. Nato quasi settanta anni fa come Malcolm John Rebennack, Dr. John è una vera leggenda vivente del sound di New Orleans, caratterizzato da una mirabile miscellanea di stili che vanno dal jazz al blues, dal r&b al funky. Il suo disco Gumbo, uscito nel 1972 per la Atco, vera summa della musica della Big Easy, farebbe sicuramente parte dei dischi che porterei nella fatidica isola deserta… Il dottore, salito sul palco alle 21.45, con il suo piano e la sua inconfondibile voce indolente, ha saputo ancora una volta ricreare una sapida atmosfera paludosa da Mardi Gras. E’ stato aiutato da una spettacolare sezione ritmica (David Barard al basso e un magnifico Herman “Roscoe” Ernest alla batteria) e dalla calda chitarra di John Fohl. Dr. John si è presentato con il suo classico bastone da cerimonia, vestito di un completo rosso, con l’organo hammond e il piano adornati da drappi di velluto e teschi di varia grandezza. La cerimonia Voodoo ha avuto così inizio e quando Mr. Rebennack ha intonato uno standard come Let The Good Times Roll o suoi classici come Right Place, Wrong Time e Such A Night, il pubblico è stato definitivamente guarito dalla sua magica pozione …

VOTO: 28/30 +

Massimo Daziani