30 novembre 2009

Autumn Live

Ho avuto la fortuna di vedere due concerti in due giorni consecutivi; le serate sono andate molto bene. Usando un linguaggio pugilistico posso dire di essere stato stordito dal montante sinistro di Roberto Fonseca e mandato definitivamente al tappeto con un devastante gancio destro sferrato dai meravigliosi Wilco. Ma adesso andiamo a raccontare queste nuove live adventures…

Roberto Fonseca - Roma 12.11.2009 - Auditorium Parco Della musica. Nel programma del Roma Jazz Festival, dedicato quest’anno alle case discografiche Jazz, c’era anche il grande pianista cubano Roberto Fonseca, autore del recente e bellissimo” Akokan”. Sono quindi venuto a Roma con tanto entusiasmo per ascoltare il virtuoso Fonseca e la sua ottima band. Grande è stata la sorpresa quando in cartellone è apparso anche un pianista italiano, tale Livio Minafra che apriva la serata. Alla sorpresa si associava anche una certa preoccupazione perché all’Auditorium gli orari sono piuttosto rigidi (tutto finito prima di mezzanotte). Sinceramente ero venuto per godermi Roberto e non volevo che si sottraesse tempo alla sua esibizione. Purtroppo i miei timori si sono avverati. Infatti la performance del pugliese Minafra si è prolungata per un’ora(!), tra musica espressionista carica di ricordi infantili, influenze della sua terra (l’immancabile prezzemolino della taranta), musica balcanica e tentativi vetero-avanguardistici (mettere oggetti sulle corde del pianoforte non è proprio una novità…). Come avrete capito il concerto non mi è piaciuto e oltretutto ha tolto spazio all’artista cubano. E poi, va bene l’apertura mentale, va bene ragionare di musica senza rigide categorizzazioni, ma che ci azzeccava la musica pseudo-classica del Minafra (un po’ un Allevi dei poveri) con il jazz? Gli organizzatori si sono giustificati spiegando che i due artisti registrano per la stessa casa discografica, la Enja Records… VOTO: 16/30
Per fortuna alla fine è salito sul palco Roberto Fonseca con la sua splendida band e la serata è decisamente decollata. Il concerto si è aperto come il nuovo disco, ovvero con la voce registrata di Mercedes Cortes Alfaro che canta a cappella la breve e intensa “Fragmento De Misa”, poi la band si scatena con una energica “Lo Que Me Hace Vivir” fatta di dolci interventi pianistici e improvvise accelerazioni. Ovviamente l’ultimo CD, “Akokan”, è stato saccheggiato. Particolare menzione per lo spettacolare batterista Ramsés Rodriguez, vera anima percussiva del gruppo. Nel “El Ritmo De Tus Hombros” (con il bravo Javier Zalba al sax baritono) uno scatenato Fonseca è riuscito a coinvolgere anche il pubblico nella sua performance vocale. La caratteristica della musica di Roberto, fatta di soul-jazz e ritmi caraibici, dove magicamente convivono allo stesso tempo allegria e malinconia, è stata esaltata nella performance romana. Su tutto la spettacolare tecnica pianistica di Fonseca, virtuoso che sa valorizzare anche le doti degli altri musicisti della band (Joel Hierrezuelo adrenalinico percussionista, Omar Gonzales preciso bassista). Dunque un’ora e venti di grande musica. Unico rammarico: se fosse durato di più ….. VOTO: 27/30

Wilco - Firenze 13.11.2009 - Teatro Della Pergola. Come in una favola l’orco Jeff Tweedy entra sul palco del meraviglioso e antico teatro fiorentino imbracciando una chitarra acustica e appena accenna le note di “Sunken Treasure” si tramuta in un principe azzurro al comando di un gruppo di strampalati moschettieri. Potrei concludere la recensione dicendo che è stato un concerto fantastico di una band in stato di grazia, dove la perizia tecnica e il feeling sono in perfetto equilibrio, dove ognuno contribuisce a dare il meglio di sé. Ma ovviamente non basta. Difficile descrive l’emozioni di una serata che, appunto, è stata magica. L’impatto sonoro dei Wilco all’inizio ha letteralmente ammutolito il pubblico, che ammaliato ascoltava in religioso silenzio le loro evoluzioni musicali. “Bull Black Nova” era energia pura che si abbatteva su di noi. Ad un certo punto Jeff ha cercato il contatto con gli spettatori anche per scuoterci dal nostro estatico torpore. Ed effettivamente il livello emozionale è aumentato, l’osmosi energetica ha fatto il suo effetto e tutto si è tramutato in una giostra sonica colorata. Commossi ascoltiamo Jeff intonare una superba “Impossibile Germany”, con un assolo fenomenale dell’immenso Nels Cline. Con “Box Full Of Letters”i Wilco ci catapultano nel passato di 15 anni fa, quando tutto ebbe inizio. E poi in coro si canticchia la dolce melodia di “Jesus, ETC.” sollecitati da un insolito e istrionico Tweedy. Dopo ci lasciamo cullare dalla beatlesiana “Theologians” in cui Jeff si fa aiutare al canto da un impeccabile John Stirratt al basso. “Via Chicago” si esalta la valenza percussiva di Glenn Kotche, semplicemente uno dei più grandi batteristi rock in circolazione. Ultimi bis con “Heavy Metal Drummer”, “Hate It Here”, “Walken”, “Monday” e “Outtasite (Outta Mind)”. usciamo felici e frastornati nella inconsueta dolce notte novembrina, consapevoli di aver assistito ad un grande evento. I Wilco adesso: sono loro il Rock. VOTO:30/30

Massimo Daziani

26 novembre 2009

Dà dipendenza, ammazza i tuoi neuroni ed è divertente, cos'è? EMBRYONIC

Embryonic - Flaming Lips (Warner Music, 2009)

"Embryonic" è un disco quasi inaccessibile fino al quinto/sesto ascolto.

I Flaming Lips tornano alla ribalta audaci, con un lavoro anticonvenzionale, rischioso e impopolare, pur senza dover dimostrare un bel niente dopo venticinque anni di carriera strepitosa. Ma i Flaming Lips sono i Flaming Lips e sperimentano come dovrebbe fare (e non fa) una band alla difficile prova del secondo album. Loro di album sono al quattordicesimo e non sembrano affatto a corto di idee.

Sono una band stravagnate e versatile, capace di approdare a nuovi linguaggi musicali sempre credibili. Geniali nell'uso di scenografie alluccinate nei live, raggiunsero l'apice della loro geniale follia nel 1997 con "Zaireeka". Ricordate questo album da ascoltare con le istruzioni per l'uso a portata di mano? Era ed è composto da quattro dischi, ognuno dei quali contente solo alcune delle tracce audio che, essendo perfettamente sovrapponibili, dovrebbero partire nello stesso istante per poter ascoltare l'album nella sua completezza. Dal momento che questo è praticamente impossibile, ogni ascolto risulta diverso dal precedente - a meno che non lo si faccia suonare in quattro, ma la sincronia perfetta non si potrà mai raggiungere - inoltre l'ascoltatore è libero di far partire i cd a suo piacimento, creando combinazioni diverse ogni volta. Come se non bastasse, gli album sono inascoltabili singolarmente perchè contengono tracce con solo sezione ritmica, solo voce e tempi morti estenuanti.

Questa piccola parentesi aiuta a comprendere l'estro creativo dei nostri Flaming Lips e ricorda che, dai tempi di "Zaireeka" ad oggi, "Embryonic" è il disco più complesso che abbiano pubblicato, dopo album bellissimi, ma decisamente più immediati come "Yoshimi Battles The Pink Robot", "The Soft Bullettin" e "At War With The Mystics".
I Flaming Lips stupiscono fin dalle prime tracce "Convinced Of The Hex" e "The Sparrow Looks Up At The Machine" per la cura maniacale degli arrangiamenti che infondono nell'ascoltatore un'irrefrenabile curiosità di continuare a sviscerare l'album, brano dopo brano, per scoprire che è sempre più denso, a volte troppo anche per i fan più affezionati. Bizzarra come al solito la scelta dei titoli "Aquarius Sabotage" (?!?) e la partecipazione, in "I Can Be a Frog", di un'ingenua Karen O (Yeah Yeah Yeah) che imita divertita i suoni degli animali in una conversazione telefonica con Wayne. Puro divertissement.

Riff circolari, arrangiamenti deliranti e psichedelici alla Pink Floyd prima maniera, ritmiche ipnotiche insieme a qualche tocco pop fanno di "Embryonic" un'opera magistrale di psichedelia rock. Un album cupo, paranoico e osessionato.

Attenzione a non abusarne, crea dipendenza.

Voto: 28/30

Eleonora Zeta Zarroni

24 novembre 2009

Un viaggio nell'Italietta pane e salame!

Zen Circus - Andate tutti Affanculo (Unhip Records / La Tempesta Dischi / Infecta Suoni E Affini 2009)

Si riparte da Vent’anni per scoprire all’improvviso di averne una trentina, con la consapevolezza di essere un Vecchio senza esperienza. La penultima canzone contenuta sul precedente Villa Inferno (Unhip Records / Audioglobe 2008) diventa così un sorta di trampolino di lancio per una palingenesi creativa che ritorna in quei luoghi per diventare altro: quadratura del cerchio non è la parola esatta ma la prima che mi viene in mente. Approdo per una band d’esperienza che si scopre ormai matura e pronta per non sottrarsi ai propri obblighi e doveri. Finalmente l’Italia e l’italiano, con i suoi figli di puttana e tutto il resto,… Andate tutti Affanculo l’unico imprescindibile e inesorabile slogan da lanciare verso i posteri in questa italietta sporca e malsana di fine decennio. Un grido lancinante e lapalissiano da rivolgere contro tutti e contro tutto (anche contro se stessi, perché no); rivolto certamente a chi ci ha portato in questo Hic et Nunc che non lascia scampo (It’s Paradise o Gente di Merda) ma anche contro chi non ha fatto nulla per cambiarlo: sostanzialmente quelli che hanno adagiato il proprio culo in questo comodo nulla solamente per pavidità o ignoranza (L’egoista o Ragazza Eroina). Non si salva nessuno allora? No! Nemmeno il Natale! “Siam morti e da vermi ricoperti”. Facciamocene una ragione. E l’ironia allora? C’è, ma serve solamente per cucinare il tutto a fuoco lento, non c’è niente di salvifico in essa. Se c’è uno spiraglio di sole, quello è da cercarlo altrove. Non ora. Non è il momento.
Andate tutti Affanculo sembra quasi un viaggio. Un road-movie molto movimentato attraverso il “Belpaese” su uno scalcagnato Van. Gli Zen trovano nel (cow)punk e nel folk(combat)rock le uniche vie percorribili per raccontarci con urgenza e dovuta perizia (tra il pubblico e il privato) questo nostro crack economico e spirituale d’inizio millennio. Nel cruscotto troveremo attaccati i santini raffiguranti i soliti noti: i Violent Femmes, gli Stones, i Meat Puppets che ci guardano dall’alto e ci proteggono. Sperando di arrivare a destinazione sani e salvi.
Condito da scariche psichedeliche (Andate tutti affanculo), da trahismi di celentaniana memoria (We just wanna leave), umori western (la coda di It’s Paradise), riot grrrl sound (Vuoti a prendere con Nada) e momenti blueseggianti (Amico mio), l’album è approdo e ripartenza di tre ragazzi cresciuti geograficamente con il sarcasmo del Vernacoliere (non me ne vogliano i pisani), con le nere poesie drogate create nelle tavole di Gipi, con il disincanto post-adolescenziale dei primi film di Virzi.
Il Circo Zen è tutto questo e anche di più: tetra e beffarda consapevolezza che nel presente non v’è certezza. Uno Show che dal vivo si palesa in tutta la sua flagranza.

28/30

OfO

23 novembre 2009

Talmente americani che sembrano svedesi

Music Go Music - Expressions (Secretly Canadian, 2009)

Funziona più o meno così: prendi il cd in mano, togli la plastica, apri la custodia e lo inserisci nel lettore. Chiudi gli occhi e appena parte la prima nota per un misterioso sbalzo spazio-temporale ti ritrovi scaraventato a fine anni Settanta in Svezia a un concerto degli Abba. Questo è in sintesi l’album d’esordio dei californiani Music Go Music. A molti potrebbe bastare questo per estrarre immediatamente il cd in questione dal lettore, rimetterlo nella custodia e bestemmiare amabilmente per i soldi spesi (mica avrete fatto i pulciari che ve lo siete scaricato a ufo?). Ma come? Va bene che siamo in periodo di revival spinto, ma addirittura gli Abba no.... Obiezioni legittime, se non fosse per un piccolo particolare di non poca importanza; il disco suona letteralmente da paura, e man mano che si procede con l’ascolto ci si accorge che gli Abba non sono da soli... Impossibile infatti non notare in alcuni passaggi melodici Elton John, gli Electric Light Orchestra (quelli di Confusion e di Last train to London), la Grace Jones del periodo disco, i Blondie e tutta una serie di gruppi che proprio a cavallo tra ’70 e ’80 hanno avuto il loro momento di gloria. Ma allora – direbbe il solito scettico – questi si sono messi a copiare spudoratamente roba altrui? No, non l’hanno fatto... Se infatti è evidente che la loro provenienza è quella, i Music Go Music sono però riusciti a interiorizzare quel bagaglio musicale, attualizzandolo e rendendolo assolutamente personale. L’urlo straziato prolungato per 33 secondi che introduce la prima traccia è già una dichiarazione di intenti; il piedino infatti si inizia a muovere e viene subito voglia di andare a cercare un paio di improbabili pantaloni a zampa di elefante da indossare allo Studio 54, in un tripudio di paillettes e brillantina. Snobismo a parte, c’è da dire che i tre californiani sono semplicemente irresistibili; la cantante Gala ha una voce splendida e traspare chiaramente che si divertono da matti a suonare insieme. “Expressions” è quindi un turbine continuo di rimandi a un periodo ormai lontano, in cui non può evidentemente mancare il momento “da struscio”, con la ballatona conclusiva “Goodbye, Everybody”, perfettamente retrò come lo era appunto il momento del lentone in discoteca.

Voto: 26/30



One

20 novembre 2009

Viene direttamente dagli anni '80 e dividerà critica e fan

Editors - In This Light And On This Evening (Kitchenware Records, 2009)



Il nuovo lavoro “In This Light And On This Evening” stupisce per la svolta elettronica che gli Editors hanno deciso di adottare. Abbandonano pianoforte e riff di chitarre per dedicarsi completamente a tastiere e synth. Sia ben chiaro, non inventano niente di nuovo, la scelta non è originale, si sa che gli anni ’80 sono tornati di moda, però la realizzazione è assolutamente ben riuscita, organica e si allontana dalla cifra stilistica che li aveva precedentemente caratterizzati. I brani non suonano come scopiazzature della gloriosa new wave, ma come creature musicali figlie degli anni Zero e nipoti degli anni ‘80.

Dopo il disco d’esordio “The Back Room”, dai toni cupi e intimisti, gli Editors hanno continuato sulla stessa scia sfornando il secondo album “An End Has A Start”, lavoro un pò banale, da ascoltare allo stadio più che in un club inglese tutto fumo, sudore e birra. E ora il terzo disco in cui gli Editors cambiano pelle: rivestono il sound di elettronica e spostano i punti di riferimento dai Joy Division ai New Order e ai Depeche Mode. La voce di Smith è sempre quella, imponente e evocativa, a volte è porpora, altre nera pece, passando per il grigio e il blu oltremare. Il mood dell’album è in linea con i precedenti lavori, introspettivo, dai toni epicamente celebrativi, sempre ascendente, monumentale e massiccio. Il disco è ben costruito, parte imponente dagli abissi di “In This Light And On This Evening”, va in crescendo con “Papillion” e “You Don’t Know Love” per poi finire con una delicata "Walk The Fleet Road".

Dopo questo disco che spiazza non per le sonorità nuove in assoluto, ma nuove rispetto a quelle a cui gli Editors ci avevano abituato, aspettiamo curiosi di vedere quale altra svolta prenderà la band.

26/30

Eleonora Zeta Zarroni

17 novembre 2009

UN'ALBA POST- ROCK

Giardini di Mirò
live@ Urban Club
(Perugia) 14 Novembre

Ad aprire il concerto ci pensano i Julian-mente, che danno inizio al loro spettacolo "toolleggiante" verso l'una, non convincono, vuoi per la poca originalità, vuoi per l'attitudine da rocker consumato del giovane frontman.
I nostri eroi arrivano un'oretta dopo di fronte ad un corposo pubblico per metà ubriaco e per l'altra assonnato.
Il programma della serata vede la proiezione del film seguito da una seconda parte costituita da vecchi brani riarrangiati per questo tour.
"Il fuoco", ultimo album uscito della band, è infatti la sonorizzazione dell'omonimo film, proposta che nasce dal Museo Nazionale del cinema che per la seconda volta offre ad un gruppo la possibilità di musicare un vecchio film (era già successo ai Marlene Kuntz con Signorina Else di Paul Czinner). Si tratta di un melodramma muto del 1915, recentemente restaurato, frutto della collaborazione tra Giovanni Pastrone e Gabriele D’Annunzio ed interpretato da due divi dell’epoca Pina Menichelli e Febo Mari.
La pellicola è divisa in tre parti e tratta la storia di un pittore che dopo aver incontrato un’aristocratica poetessa ne diviene ossessionato, non riuscendo neanche più a dipingere (La Favilla). Lei lo asseconda invitandolo a lasciare la sua casa per vivere insieme giorni di intensa passione e di ritrovata ispirazione (La Vampa). La giovane infine lo abbandonerà per tornare dal marito, questo rende completamente pazzo lo sfortunato pittore (La Cenere).

Inizialmente musica ed immagini sono binari lontani, procedono si nella stessa direzione, ma sempre a distanza di sicurezza.
Poi qualcosa cambia, la chitarra di Nuccini che insiste, Donadello che sfrega l'archetto sul piatto ad aumentare il phatos, tromba, basi elettroniche e la seconda chitarra (Reverberi) che entra violenta come l’incedere della pazzia...e lo scorrere della pellicola e delle note finiscono per creare un nuovo e unico corpo.

I brani che chiudono il live sono pezzi selezionati e riarrangiati dal gruppo, ma l'intento di rendere il tutto più omogeneo e vicino alle sonorità della colonna sonora mette in disparte episodi più incalzanti, ben riusciti alla nascita (il precedente "Dividing Opnions" quasi prendeva distanza da certi suoni oramai stra-sentiti).
I Giardini di Mirò con il loro potente muro sonoro, che li accompagna oramai da dieci anni, riescono ancora a trovare nuove soluzioni (quando musicali, quando visive come in questo spettacolo) in un panorama post attaccato ad una serie di stereotipi che non si decidono ad abbandonarlo.

Fox

12 novembre 2009

Dieci anni dopo, intatta bellezza

The Roots- Things Fall Apart (Geffen Recors, 1999)


Era il 1999 quando i The Roots pubblicarono il loro quarto album in studio, Things Fall Apart. Fino a quel momento è stato, e molto probabilmente lo è tuttora, l'unico album hip-hop il cui titolo si rifa ad un romanzo, quello del nigeriano Chinua Achebe, considerato uno dei più grandi autori della letteratura africana
Il gruppo di Filadelfia è un collettivo composto da sette musicisti, capeggiato da uno dei migliori Mc del mondo, Black Thought, mai un nome fu più azzeccato, e dal talentuoso batterista ?uestlove (si legge Questlove). 
C'è chi l'hip-hop lo fa in case faraoniche, circondato da succinte ragazze rigorosamente seminude, alternando una sparatoria ad un soggiorno in carcere e chi invece si mette a nudo e dichiara di essere un uomo con dei sentimenti, scelta assai più pericolosa di un qualsiasi atteggiamento alla Tony Montana. I The Roots danno e non tolgono niente al genere hip-hop, sperimentano nuove sonorità e si inseriscono in quella schiera di gruppi  hip-hop all'avanguardia come Gang Starr, De La Soul, A Tribe Called Quest e Outkast. E' un hip-hop che si mantiene fedele alle radici del genere ma è sempre più suonato e caratterizzato dalla ricerca musicale piuttosto che dalla costruzione di un'immagine accattivante, da MTV star, e il loro fascino sta proprioin questo. 
In Things Fall Apart incontriamo importanti collaborazioni: in Double Trouble Black Thought duetta sopra un base dal beat irressistibile con Mos Def, rapper e attore di talento, bellissima la sua interpretazione di Mike, il ragazzo che lavora nella videoteca in Be Kind Rewind, del sognante regista Gondry.
Poi c'è la collaborazione con Common in Act too (the love of my life), canzone delicata e tenera con una base di semplice batteria e basso. Poi arriviamo allo Zenith dell'album con You Got Mequi la collazorazione è doppia, il ritornello è interpretato da Erykah Badu, la divina, mentre la parte rap è cantata da Eve. Erykah Badu, con la sua voce intrisa di malinconia interpreta un ritornello che è una promessa di fedeltà e devozione, ormai rimasto nella storia dell' hip-hop: “If you were worried ’bout where / I been or who I saw / or what club I went to with my homies / baby don’t worry you know that you got me” mentre Black Thought racconta la storia d'amore nata tra due vicini di casa senza portarla ad una conclusione. Il beat aumenta, diventa disarticolato e jungle, forse a simboleggiare la fine della relazione, la delicata voce della Badu e le sue promesse sembrano un'eco lontana, mentre il monito "Sometimes relationships get ill/ no doubt" pare essere la cruda realtà dei fatti e, semplicemente, come suggerisce il titolo dell'album, Things Fall Apart.
Un album da riscoprire.

Voto: 28/30

Eleonora Zeta Zarroni

10 novembre 2009

The last day of autumn

The first day of spring dei Noah and the Whale verrà sicuramente ricordato come uno degli album più leggiadri e belli di tutto il 2009. Un disco "autunnale" (più che primaverile) semplice e importante, impermeato da una classicità folk scarna e potente, unica nel suo genere. Malinconia e introversione trovano qui uno spazio condiviso riflesso nella sublime voce di Charlie Fink, giocando un ruolo fondamentale anche nell'economia degli intricati e ricchissimi arrangiamenti orchestrali architettati dai Nostri. Atmosfere che inevitabilmente si discostano non poco dal precedente Peaceful, The World Lays Me Down (2008), disco pregevole dal mood allegro e sbarazzino ma ancora troppo acerbo per fare completamente centro, il primo lascito dei quattro ragazzi di Twickenham. In questo Video-Report a cura di OfO e NoNèCHiaro PrODigi registrato qualche mese fa al Circolo degli Artisti di Roma, possiamo ritrovate tutte le componenti che pervadono la musica dei Noah.




9 novembre 2009

Easy Time

Carmen Consoli, Elettra
(Universal 2009)

La cantantessa è tornata! A tre anni dal precedente lavoro "Eva conto Eva" in cui le emozioni e i personaggi da lei cantati erano avvinghiati in una musicalità mediterranea, Carmen fa il bis con "Elettra".
Titolo emblematico che raccoglie in sé una specie di tributo al padre scomparso di recente, colui che iniziò alla musica una giovanissima Carmen incuriosita dalle prove che si svolgevano nel salotto a lei inaccessibile quando "arrivavano gli amici di papà". Di lui si racconta nel brano che apre l'album "Mandaci una cartolina" dove si tenta di esorcizzare la morte, vista come niente di più che una spiaggia dalla quale mandare notizie ai propri cari.
Testi pungenti come d'abitudine, attacchi al perbenismo, al pettegolezzo, alla famiglia come prima società già marcia, alla sua amata Sicilia e soprattutto al belpaese ("Viva l'Italia, il calcio, il testosterone, gli inciuci e le buttane"). Non solo..In un brindisi finale c' è spazio anche per l'amore, in tutti i suoi modi d'essere, quello materno quello carnale, il promiscuo, il fedele e quello spirituale ("ventunodieciduemilatrenta").
Musicalmente ci muoviamo su terreni già sondati dall' "Eccezione" in poi, suono acustico preferibilmente in forma di ballata, voce come strumento in primo piano a compiere gran parte del lavoro, con chitarre, basso e batteria a fare da sottofondo.
La violenza casalinga narrata in "Mio zio" emerge anche musicalmente con insistenti violini , confermandosi come l'episodio più riuscito.
Da segnalare "Marie ti amiamo" duetto con il conterraneo Franco Battiato, tra tradizione siciliana e araba, condito da un ammaliante ritornello in francese. Chiaramente non poteva mancare il pezzo in dialetto siciliano "A finestra" che narra, in ritmo incalzante, la triste esistenza di una "vedetta" di paese.
Carmen racconta drammi personali e storie comuni con un'eleganza unica, al di là di questo, "Elettra" non aggiunge niente di veramente nuovo al progetto portato avanti a partire dal lontano '96 , anzi ci viene tolto , speriamo non definitivamente, quel graffiare di fender dei tempi in cui Matilde odiava i gatti e lei, la cantantessa, del tradimento riusciva a sentirne addirittura l'odore!??!!

22/30

Fox

5 novembre 2009

La macchina della pioggia

Rain Machine - Rain Machine (Anti/Self, 2009)

Il progetto solista del barbuto cantante e chitarrista dei Tv On The Radio, Kyp Malone, ha finalmente preso forma, e che forma. Si chiama Rain Machine ed è paragonabile ad un dono che viene dal cielo come potrebbe essere una macchina della pioggia nel deserto. Rain Machine rivela l’altro lato dei Tv On The Radio, band fondamentale dello scenario rock degli anni Zero. Se ne sente l’influenza ovviamente, l’imprinting è simile, ma in questa sede Malone riesce a trovare lo spazio per dar sfogo alla parte più intima di sé, come nella toccante Love Won’t Save You, ballata di voce e chitarra acustica, essenziale e struggente.
Nell’album si incontrano molti generi diversi, il ritmo infatti cambia continuamente e crea uno spettro completo di suoni capaci di rispecchiare la varietà delle emozioni umane e della vita, reale e immaginata. Si parte con un intro tutto fischiatine e leggerezza e si passa immediatamente all’incalzante Give Blood che ricorda inevitabilmente Gone Daddy Gone dei Violent Femmes. Completano l’opera ballate come New Last Face, Smiling Black Faces e Driftwood Heart grazie alle quali si può apprezzare appieno la voce esagerata di Malone. Quel timbro graffiante e dolce allo stesso tempo, i falsetti ricorrenti e i profondi rantoli di cuore accompagnano arrangiamenti che sono figli della tradizione folk-rock americana, del bluegrass, ma che hanno anche profonde radici soul e wave.
Non è un disco di facile ascolto, necessita di molto tempo per essere interiorizzato, tanta è la sua densità. Senza dubbio il tempo premierà Rain Machine che è uno dei più bel album di questo 2009 ormai agli sgoccioli.

Voto: 29/30

Eleonora Zeta Zarroni

La Tremenda serata di Micachu!!!

Micachu and the Shapes - live @ Circolo degli Artisti (Roma) 23 Ottobre
Un concerto non può durare mezz’ora. T’incazzi per forza. Te la prendi con chi ha fatto l’incidente sull’A1 e ha fatto sì che il Van della povera Micachu arrivasse a destinazione con due ore di ritardo, te la prendi con l’organizzazione del Circolo che per dare spazio alla tradizionale serata settimanale “Homogenic” ha ampiamente decurtato il tempo riservato al concerto (ma ce n’era proprio bisogno?!?), te la prendi con te stesso, perché fondamentalmente era meglio se eri rimasto a far baldoria con gli amici a casa del Milluzzi. Ecchecazzo. Quello che rimane della serata, per quanto tu possa averci capito realmente qualcosa, sono questi fottutissimi trenta minuti di follia pura concepiti dalla mente malata della folletta inglese Mica Levi e tanto amaro in bocca per una serata che poteva essere ma non è stata. Accompagnata dai due The Shapes Marc Pell alle percussioni e batteria e dalla tastierista Raisa Khan, Micachu (visibilmente provata dal viaggio) si alterna tra un chitarrina preparata e una tradizionale chitarra elettrica per ripercorrere buona parte (!?) dei brani contenuti sul suo primo e unico lascito Jewellery. Fondamentalmente la musica che risuona dal palco altro non è che uno specchio deformato di quello che abbiamo apprezzato sul disco. Una sorta di bignami scritto male sulle tendenze degli ultimi trent’anni di storia della musica: un saggio lacerato, anacronistico e freschissimo al tempo stesso che parla di elettronica, del punk, dell’hip hop, del folk e della musica DIY come se fossero generi nati l’altro giorno. Una Storia senza storia che è fonte d’ispirazione per questa riccioluta e androgina ragazza che si eccita non poco a sondare i meandri più oscuri della canzone pop. E quando il tutto incominciava a ingranare e tu incominci a raccapezzarti in tutto questo magma, dopo l'esibizione della spumeggiante Golden Phone, segno della forbice da parte dell'organizzazione e tutti a casa. Andate tutti dove va Marrazzo.. (cit. da SIB).

OfO

(Solo) Un uomo allo specchio

Niccolò Fabi - Solo Un Uomo (Universal, 2009)

Vagamente snob, sicuramente colto. Sotto i suoi ormai famosi capelli un cervello lucidamente pensante. Niccolò Fabi è come quei vini che migliorano invecchiando. Non che mancassero i presupposti…. Tutt’altro! Già dal primo album si intravedeva una sensibilità artistica fuori dal comune, un’ironia graffiante e soprattutto ottimi ascolti.

I primi lavori però peccavano ancora di una certa ingenuità forse dipesa dall’età. Adesso no. Adesso Niccolò è cresciuto, è diventato un uomo, anzi “Solo un uomo” e in queste dieci tracce si racconta e si mette a nudo. Emergono così le certezze e le convinzioni, ma anche le paure e le insicurezze, gli slanci di affetto e le piccole meschinità, “La paura di stare fuori o dentro” insomma, come canta in uno dei momenti più intensi dell’album. Ma Niccolò ha passato la fatidica soglia degli “anta” ed ha pure messo su famiglia e questo traguardo lo mette in musica in un piccolo capolavoro di intimismo dal nome “Attesa e inaspettata”, una sorta di punto e a capo, una rinascita, una nuova giovinezza diversa dalla precedente, ma comunque una ripartenza, perché comunque” Attesa e inaspettata arriva la seconda vita in quel l’istante in cui si taglia il velo e sei dell'altra parte. Non sei preparato mai abbastanza ma sei pronto da sempre”. C’è poi una delle più belle dichiarazioni d’amore mai scritte (“La promessa”), che non ha niente da invidiare a un capolavoro come “La cura” del Maestro Battiato (“il nostro amore si sporca le mani ogni giorno nel fango più di certe idee più delle maree più delle certezze il nostro amore è sospeso nel vuoto ma con i piedi per terra più di certe idee più delle maree più delle certezze che si hanno”). L’età porta dunque una nuova maturità e Niccolò è finalmente consapevole che “più passa il tempo e meno ho interesse a sprecare la voce senza rancore davvero, siete meravigliosi, ma per il futuro facciamo ognuno per sé” e che per raggiungere quel traguardo chiamato felicità “basterebbe fare cio' che si è scelto non accettare il ricatto vincente o sconfitto alzare la testa vedere te”. Allo stupore per i risvolti eufemisticamente tragicomici dei comportamenti umani però non si accompagna una spocchia pseudo-moralizzatrice, in quanto “siamo tutti l’espressione di uno stesso pianeta”.

L’unica feroce per quanto sussurrata denuncia contro la degenerazione di un paese, di un popolo e – forse – del genere umano (“pascoliamo pascoliamo e pure in un campo a caso e che sia vicino casa perchè migriamo soltanto dal divano al davanzale prigionieri con il il terrore di essere liberati di essere liberi”) arriva con l’ultima traccia, un monito, un avvertimento, una chiamata alle armi della maggioranza silenziosa del paese con la speranza che “una parola lanciata nel mare con un motivo ed un salvagente che semplicemente fa il suo dovere, una parola che non affonda magari genera un'onda che increspa il piattume e lava il letame”. E allora sono davvero “Parole che fanno bene” quelle scritte da Niccolò, che dopo tre anni da “Novo Mesto” ci regala il suo disco più sentito, più pensato e più sincero. In altre parole, una grandissima prova di maturità.

Voto: 29/30

One

4 novembre 2009

LaGianna, Siena, l'America e l'Europa

Gianna Nannini - Latin Lover (Ricordi, 1982)

Carezze post-atomiche intrise di una rabbia genuinamente toscana. Pulsioni europeiste senza mai rinnegare le radici. Lancinante bisogno di espressione e autodeterminazione per dimostrare che il rock prima che musica è attitudine. La buona famiglia che soffoca un carattere irrequieto da purosangue come nella miglior tradizione del Palio. Siena un vestito troppo stretto, quindi la fuga; prima Milano, da subito seconda pelle; la gavetta con i primi incontri importanti nel circuito off; poi la delusione per quell’America sognata e idealizzata; infine Berlino, la città dove tutto può accadere - e ai tempi effettivamente accadeva – per la definitiva consacrazione.

La Gianna (rigorosamente con l’articolo prima del nome) arriva nella capitale tedesca nel 1982 e da subito entra nel giro degli artisti dell’avanguardia Berlinese; per un periodo divide l’appartamento con una giovane ed eccentrica musicista londinese di nome Ann Lennox, che di lì a breve diventerà la signora Eurythmics; è però l’incontro con Conny Plank, affermatissimo produttore e inventore del krautrock (suoi i suoni della produzione dei Kraftwerk fino a "Autobahn") quello che le cambia la vita e di conseguenza la carriera. 5 anni di collaborazione e 5 anni di successi uno in fila all’altro; fino al 1987, quando Plank morirà di cancro a soli 47 anni. L’imprinting internazionale del produttore tedesco si fonde alla perfezione con la sensibilità melodica italiana dell’artista senese e "Latin Lover" ne è la (prima) prova lampante. Il pezzo che dà il titolo all’album, ormai un classico della musica italiana, è un rock energico, caratterizzato da cassa dritta e da un testo che ironizza sugli stereotipi del maschio latino, su cui la voce roca e graffiante della Gianna emerge con potenza e prepotenza. Altro episodio memorabile è costituito da “Carillon”, intenso e struggente ricordo di un amore, messo in risalto da un testo poetico, tra “profumi d’incenso, sigarette e cioccolate”; il brano parte piano e poi esplode in tutto il suo pathos. Ci sono poi le tiratissime e incazzate “Primadonna” e “Amore amore”, in cui l’ironia – da sempre uno dei marchi di fabbrica dell’artista senese – la fa da padrona; “Wagon-lits” è la storia di un’avventura clandestina su un treno, mentre l’ipnotica e ansiogena “Fumetto” pare una Sin City ante-litteram. C’è quindi l’apertura al nuovo millennio con la futuristica “Volo5/4”, tra “Dei via radio e Dei del futuro”, fino ad arrivare al pezzo “totale”, uno dei punti di non ritorno della canzone italiana; “Ragazzo dell’Europa”. Su un tappeto musicale che sa veramente d’Europa, di viaggi, di botte ed alcool, la Gianna, in questo simil-autoritratto, racconta l’inquietudine e il continuo bisogno di nuove sfide. La canzone è un piccolo grande miracolo; semplicemente da lacrime.

L’album riscuote un grande successo, complici anche musicisti di prim’ordine, tra cui Mauro Pagani e Annie Lennox alle tastiere. Per la definitiva consacrazione internazionale dovremo attendere ancora 2 anni, quando lo spleen di “Fotoromanza” invaderà tutta Europa; quello che però è già evidente è che quando si parla di rock italiano al femminile non si può prescindere - anche adesso - da Gianna Nannini, artista che in 33 anni di onorata e gloriosa carriera ha regalato e continua a regalare fulgidi esempi di grande musica.

Voto: 28/30

One

3 novembre 2009

Dall’uomo ad una dimensione… al Teatro degli Orrori

Un tempo c’erano gli One Dimensional Man. Nome tratto dall’opera forse più nota di un intellettuale della nostra epoca, l’espressione della schiavitù democratica. Una citazione dietro quella che fu una delle live band più capaci d’Italia. Centinaia e centinaia di concerti, da soli e di spalla a grandi formazioni internazionali (Jon Spencer Blues Explosion, Melvins,Blonde Redhead, Air e Giant Sand per fare qualche esempio), diverse partecipazioni a festival importanti, 4 dischi in studio.

Un signor gruppo insomma.

E così, dopo circa dieci anni, si arriva al 2005. Anno dell’ultimo tour: anno in cui nasce il Teatro degli Orrori. Ancora una citazione dietro cui si sviluppa un progetto musicale nuovo e tutto in italiano. I componenti hanno militato negli ODM. Tutti tranne uno. Dal primo gruppo arrivano voce e chitarra, batteria e basso, rispettivamente Pierpaolo Capovilla, Francesco Valente e Giulio Favero. Mentre la seconda chitarra, Gionata Mirai, arriva dai Super Elastic Bubble Plastic.

Il nome, Teatro degli Orrori, si ispira al Teatro delle Crudeltà di Antonin Artaud. Come quello cercava di restaurare le dinamiche convulse, caotiche e violente del reale, attraverso una visione tanto profonda da concepire ogni cosa del Mondo e il contrario di essa. Notte e giorno. Pulsioni di vita e di morte come espressioni opposte ed equivalenti. Allo stesso modo il Teatro di Capovilla rappresenta la Vita per com’è. Senza fronzoli. Senza abbellimenti e senza semplicismi edulcorati. Quello che si scorge qui è un romanticismo vero, nel senso letterario del termine. È il romanticismo della passione. Di quella passione che consuma e distrugge. Che devasta.

Il Teatro degli Orrori è un progetto musicale che riflette e fa riflettere. Fa una musica che colpisce duro. Cruda e sincera. Cattiva. I testi sono ragionati e raccontano. Talvolta sono meno razionali, più impulsivi, e urlano. Questo è un gruppo che usa parole pesanti con una musica rock bella forte. Non di facile ascolto, ma, al contempo, di ampio gradimento. A testimoniarlo è il successo del primo, bellissimo, Dell’impero delle Tenebre (La Tempesta Dischi / Venus Dischi, 2007). Un album che ha segnato il 2007 musicale italiano con brani come “Dio mio”, “Carrarmatorock!”, “Compagna Teresa”, “Maria Maddalena”. Un album difficile da ripetere. (voto:30/30)

Loro però hanno realizzato un nuovo, riuscito, capitolo del Teatro degli Orrori. Ancora una citazione a fare da titolo. E così A sangue freddo (La Tempesta Dischi, 2009) – nome dell’album e della canzone dedicata al poeta e attivista nigeriano Ken Saro Wiwa – regala 12 tracce di un’umanità sincera e straziante. Brani che si fanno portatori di memoria (“A sangue freddo”, “Majakowskij). Brani che entrano nella carne, si fanno carne e la divorano. Brani che esprimono in musica le emozioni più forti. La passione, la passione sanguinaria, l’ira. Il rimpianto e la presa di coscienza delle conseguenze delle proprie azioni “sarebbe stato bello invecchiare insieme” – canta Capovilla – “la vita ci spinge verso direzioni diverse. Non te prendere, non te la prendere almeno una volta, il lavoro mi rincorre, adesso devo scappare”. Una vita che sarebbe potuta essere diversa (“Direzioni Diverse”). Denunciano le condizioni politico-economiche del mondo globale “nel terzo mondo fanno finta di vivere in democrazie, il libero commercio di schiavi c'è ancora nel terzo mondo, se parli troppo ti fanno fuori, se non ti fai gli affari tuoi, se non ti dà noia, gli zingari li bruciano e poi li mandano via “. Un mondo dove “solo le mie disperazioni mi fanno sentire ancora vivo” (“Terzo Mondo”). Ci sono, ancora, tanti riferimenti religiosi. Su tutti “Padre Nostro”, che inizia con il testo della preghiera e si chiude con un’amara consapevolezza “non soltanto Dio non governa il mondo, ma neppure io posso farci niente, non è compito mio, ci penserà qualcun altro”. La visione del Teatro è sincera e amara. E racchiude una poetica matura. Da ascoltare con attenzione. Speriamo che non smettano, che di gruppi come loro c’è sempre bisogno.

(voto:29/30)

M.Mae