31 gennaio 2010











Live Adventures in Bologna

Ho passato un freddo fine settimana in quel di Bologna nella speranza di scaldarmi con due interessanti appuntamenti musicali. Uno vedeva protagonisti i Leisure Society con il loro elegante folk-rock, l’altro aveva come protagonisti gli Heavy Trash di Jon Spencer con il loro sghembo rockabilly. Vediamo un po’ come è andata a finire…

The Leisure Society – Bologna 23.01.2010 – Locomotiv Club. Dopo una avventurosa ricerca del luogo deputato all’esibizione (dovevano suonare al Covo, poi all’ultimo è stato tutto spostato al Locomotiv), finalmente alle 23.30 vedo materializzarsi sul palco i Leisure Society, band inglese dal suono americano. Il loro album di debutto, “The Sleeper”, è stata una delle uscite discografiche più fresche e interessanti del 2009. E anche dal vivo i nostri non hanno deluso: è stato un gran bel concerto che ha ripercorso tutto l’album con intensità e delicatezza. Particolarmente riuscite le versioni di “Save It For Someone Who Cares” con quella contagiosa coda quasi hillbilly, di “A Matter Of Time” con quel dolce retrogusto beatlesiano, di “The Last Of The Melting Snow” splendida ballata pianistica dove violino e violoncello hanno creato una dolce atmosfera eterea. Ma tutte le interpretazioni sono state pregevoli ed ispirate. Nick Hemming, impegnato alle chitarre e all’ukulele, ha una bellissima voce che si lega alla perfezione con quella del suo compare Christian Hardy, impegnato alle tastiere. Molto bravi anche gli altri musicisti (Will Calderbank al violoncello, Mike Siddell al violino, Darren Bonehill al Basso e Sebastian Hankins alla batteria). I Leisure Soiety hanno presentato anche tre nuovi brani che fanno ben sperare nel loro futuro nuovo album. Quando a novembre ho recensito il loro album scrissi che questa band, pur essendo britannica, era molto legata alle sonorità di matrice folk americana. Notavo anche che, ad un più attento ascolto, il loro essere inglesi si palesava con influenze provenienti dal sound della Swinging London (Beatles e Kinks in primis). Quindi quando nel loro bis hanno suonato una versione sentita e impeccabile di “Something” del compianto Sir George Harrison, il cerchio si è chiuso elegantemente. Musica che porta conforto all’anima. VOTO: 29/30

Heavy Trash – Bologna 24.01.2010 –Locomotiv Club. Le cose non sono andate così bene nella seconda serata . La nuova creatura di Jon Spencer, gli Heavy Trash hanno pubblicato da poco la loro terza fatica discografica, “Midnight Soul Serenade”. L’idea non sarebbe così male, anche se non particolarmente originale: ritornare alle radici del rock’n’roll rivisitando e destrutturando il sound degli anni 50, quando furoreggiavano eroi come Elvis (periodo Sun),
Eddie Cochran, Jerry Lee Lewis, Buddy Holly, Johnny Burnette, Roy Orbison, Carl Perkins e rockabilly discorrendo. Nelle intenzioni dei nostri il tutto dovrebbe essere condito con la solita dose di iconoclastia tipica di Spencer e una furia proto-punk. Però il disco non decolla mai, un po’ per la qualità non eccelsa dei brani e un po’ per un certo manierismo interpretativo che non ci si aspetta da uno come Jon. E purtroppo questa sensazione di scarsa ispirazione si è avvertita anche dal vivo. Spencer ha giocato con il microfono, Matt Verta-Ray si è dimostrato un buon chitarrista, la base ritmica ha suonato bene, ma la scintilla non è scattata mai. Basti pensare che uno dei pochi momenti dove il livello del concerto si è un po’ alzato è stata l’esecuzione di Good Man, brano scritto e cantato da Matt Verta-Ray. In questo concerto Jon Spencer si è dimostrato sì un animale da palcoscenico, ma un animale ammaestrato. Aridatece i Cramps! VOTO: 20/30
Massimo Daziani

30 gennaio 2010

Il pazzo pazzo mondo del signor Rubik

Mi inserisco anche io tra voi penne del blog e scelgo, come primo post, una segnalazione dal territorio che sorveglio. Bologna.



The crazy crazy world of mr Rubik.


C'è anche una finestra su You tube che presenta il nuovo progetto, sulle note di un brano.

Non ho ancora ascoltato tutto il disco, che pare uscirà a febbraio con un'etichetta ad hoc, neonata in seno al Locomotiv Club (ormai gettonatissimo sotto l'indie delle Due Torri). Ma i pezzi per ora disponibili on line fanno pensare che sarà una bella novità. Punk e post rock, rock 'n' roll, groove garage minimalista ma veramente coinvolgente (vedi: "Tic tic tac"). Uno dei membri è proprio del Locomotiv e sta organizzando un lunghissimo tour, con un sacco di date da metà febbraio ad agosto.
Insomma, ne sentiremo parlare. E avrò presto il disco, così da poter ragionarci con calma e capire meglio com'è sto mondo di Mr Rubik.


scheggia

28 gennaio 2010

NON SOLO INDIE ROCK



Spoon "Transference" (Merge / Anti) 2010

Erano gli anni 90, quando gli Spoon si affacciarono nel panorama musicale, ed ecco qua che i ragazzi del Texas, al sedicesimo anno di attività, festeggiano con un bel disco nuovo. Il gruppo guidato da Britt Daniel ha le carte in regola per sedere tra i grandi del rock, conquistarsi la copertina di una rivista come Rolling Stones e rimanere comunque simpatico ai fedeli dell'indie rock. Erano riusciti perfino ad avere un contratto con la grande Elecktra, ma prima di un passo falso, ci hanno ripensato...alla fine il loro nido sembra essere proprio il mondo indipendente.

Tra i sei buoni lavori in studio, la band ha già fabbricato il Disco, con la d maiuscola, ovvero Kill the Moonlight del 2002 e anche il suo album pop, coeso e orecchiabile da far invidia agli U2, Ga Ga Ga Ga Ga del 2007. Al settimo della carriera c'era chi si aspettava un miglioramanto rispetto al lavoro precedente, una nuova evoluzione, e invece gli Spoon ci regalano un disco dalla produzione semplice (registrato a casa di Britt) e dalle melodie spontanee.

Ci sono canzoni dal ritmo ripetitivo, bruschi tagli tra un pezzo e l'altro, con l'aggiunta di diversi momenti strumentali, che porterebbero a definirlo un disco di interruzioni, poco rotondo. Nonostante questo gli Spoon mantengono la loro sonorità, con quelle tracce soul che rendono il loro rock diverso e quasi elegante ("The Mystery Zone", "Who makes your Money"). Chitarre leggere ma dissonanti, il basso a fare da base e la voce, sempre magicamente adatta, di Britt, il tutto in perfetta armonia. E' proprio la semplicità che rende interessante l'agitata "Written in Reverse" e addirittura irresistibile "Trouble comes Running".

Non si tratta di un album perfetto, a tratti perde in confronto ai suoi predecessori, ma si parla di gente veramente appassionata di musica (e non del successo); Transference non cerca cambiamenti o sperimentazioni azzardate, ha solo la pretesa di renderti per 43 minuti affascinato. "Is love forever?"

27/30

Fox

27 gennaio 2010

Il Ritorno dell'Orchestra

Ci siamo quasi. A distanza di tre anni da "Technicolor Dream", album che nel 2007 fece incetta di premi in ambito indie, stanno per tornare gli ...A Toys Orchestra con un nuovo album. Ancora non ci è dato sapere nulla, ma dalla intervista che hanno rilasciato qualche mese fa a NoNèCHiarO ProD/gi qualcosa si intuisce. A voi interpretare i segnali della band salernitana:

...A Toys Orchestra on SPINearth.tv (by NoNèChIARoPRoD/Gi)

NoNèCHiaroPRod/gi | MySpace Video

19 gennaio 2010


Mingusology, last but not least

Ho cercato di celebrare il grande Mingus per il trentennale della sua morte. Ho recensito tre suoi capolavori: “Phitecanthropus Erectus”, “The Clown”, “Mingus Ah Um”. Ma questo 2009 è ormai finito ed io avrei ancora tanti dei suoi meravigliosi dischi da consigliare. Non mi resta che stilare una sintetica carrellata di altre perle del favoloso tesoro del Corsaro Mingus…

Tijuana Moods (RCA 1957). E’ l’opera più espressionista di Mingus. Con le sue composizioni, caratterizzate dalla consueta veemenza interpretativa, l’autore ci guida per le colorate strade della cittadina Messicana al confine con gli Stati Uniti. Su tutti i brani spicca il capolavoro“Ysabel’s Table Dance” con cui Mingus riesce magistralmente a tradurre in musica l’atmosfera di una bettola fumosa dove gli avventori alticci seguono le evoluzioni di una ballerina di flamenco. Il contrabbasso di Mingus trascina i musicisti (tra cui spiccano un giovane Jimmy Knepper al trombone, l’ottimo Clarence Shaw alla tromba e l’immancabile Danny Richmond alla batteria) verso una danza esotica e sensuale impreziosita dall’uso di nacchere e vocalizzi. La casa discografica non riconobbe la grandezza di questa opera che anticipava in qualche modo sia la rivoluzione modale che l’ispirazione etnica di tanto jazz a venire e incredibilmente fu pubblicata solo cinque anni dopo!Genialità e creatività incompresa. VOTO: 30/30

Blues & Roots (Atlantic 1959). Questo disco insieme a “Oh Yeah” non dovrebbe mai mancare in una collezione di musica afroamericana. Infatti Mingus in questi album compie un‘incredibile operazione culturale: unire lo swing, l’improvvisazione, le poliritmie, in una parola sola il jazz, alla popular music nera che va dalle negro ballad, al blues, al gospel, fino al multiforme universo del rhythm and blues. Brano simbolo di questo ritorno alle radici, vera rivoluzione estetica mingusiana in nome della tradizione popolare nera, è “Wednesday Night Prayer Meeting”, in cui il nostro riesce a ricreare musicalmente l’atmosfera incandescente della cerimonia di una chiesa santificata. Nel brano rivivono moanings (gemiti), urla d’incitazione, battiti di mani e la possessione di un fedele (magistralmente “descritta” dall’ assolo bluesy del grande Booker Ervin). VOTO: 30/30

The Complete Candid Recordings (Mosaic 1989). Sono tutte le registrazioni di Mingus avvenute nell’autunno del 1960 per la Candid, etichetta indipendente che ebbe vita brevissima. In questi brani compare il geniale Eric Dolphy al sax alto e Ted Curson alla tromba. Soprattutto in quartetto con il fido Richmond, Mingus sa essere grande band leader, facendo uscire il meglio dai suoi musicisti. Particolarmente preziosa è una versione non censurata di “Fables Of Faubus”. La grandezza di Dolphy si esprime con tutta la sua libertà interpretativa in una splendida versione di un classico come “Stormy Weather”. VOTO: 29/30

Mingus At Antibes (Atlantic 1960). In realtà questo concerto, registrato al Festival Jazz di Antibes il 13 luglio del 1960, è stato pubblicato solo 16 anni dopo. Mingus guida i quattro musicisti (Dolphy, Ervin, Curson e Richmond) in maniera magistrale. Ne esce fuori un live infuocato. VOTO: 30/30

Oh Yeah (Atlantic 1961). Ecco l’altro disco che continua il discorso intrapreso da “Blues & Roots”. Qui abbiamo, se possibile, un Mingus ancora più vicino alla cifra stilistica del gospel e del blues. Egli siede al pianoforte e canta con voce rauca e energica dei blues come “Hog Calling Blues”, “Devil Woman” e “Oh Lord Don't Let Them Drop That Atomic Bomb On Me” o un brano di ispirazione gospel come “Ecclusiastics”. Orfano di Dolphy, Mingus trova un eccellente Roland Kirk da affiancare allo stile caldo di Booker Ervin. VOTO: 29/30

The Black Saint And The Sinner Lady (Impulse1963). Da molti considerato il suo capolavoro. Effettivamente è un’opera meravigliosa che profuma delle suite ellingtoniane, anche se nella scrittura e nel modo di concepire la musica è intimamente mingusiano. Si tratta di 6 movimenti che in qualche modo sono legati tra loro, spesso da motivi che costantemente ritornano. La presenza di 11 musicisti (anche un chitarrista flamenco come Jay Berliner) ricrea atmosfere da big band; l’uso creativo dello studio di registrazione (montaggio di frammenti e utilizzo delle sovraincisioni) rende musicalmente compatta un’opera originale, moderna e unica di un’artista al culmine della sua ispirazione. VOTO: 30/30

Changes One e Changes Two (Atlantic 1974). Dopo un periodo di appannamento creativo, dovuto ai suoi sempre più frequenti problemi psichici, Mingus ritrova nuova linfa vitale mettendo su una formazione di giovani e geniali musicisti come Don Pullen al piano, George Adams al sax tenore, Jack Walrath alla tromba.Unico elemento sopravvissuto dei gruppi passati è l’immancabile Danny Richmond. Con questa strepitosa band Mingus incendia i Festival Jazz di mezzo mondo e scrive nuove pagine musicali di intensa bellezza. La massima testimonianza discografica di questa rinascita artistica sono questi due album. Tra nuove composizioni (come la romantica “Sue’s Changes”) e veementi riproposizioni di classici del passato (“Orange was the color of her dress then blue Silk” e “Devil Blues”), Mingus si dimostra ancora interprete e compositore superbo.VOTO: 30/30 Altri Ascolti: Mingus Dinasty (Columbia 1959) 27/30. Mingus Revisited (Mercury 1960) 27/30. Money Jungle, con Ellington e Max Roach (UA 1962) 30/30. Mingus, Mingus, Mingus, Mingus, Mingus (Impulse 1963) 28/30. Reincarnation Of A Lovebird (Prestige 1970) 27/30. Mingus Moves (Atlantic 1973) 27/30. Three Or Four Shades Of Blues (Atlantic 1977). 27/30


Massimo Daziani

15 gennaio 2010

Cosa resterà di questi anni 00....

In immenso ritardo finalmente anche io arrivo a pubblicare questa classifica del meglio del decennio appena concluso. Non nascondo che riuscire a dare questi 30 nomi è stata un'autentica impresa... Non tanto per i 10 album del 2009, quanto per i 20 del decennio perchè inevitabilmente la memoria ha privilegiato le cose più recenti... Ho montato e smontato, tolto e aggiunto, cercando di non farmi prendere dai facili entusiasmi del singolo momento. E' assai probabile che non ci sia riuscito perchè molti dischi fondamentali me li sarò dimenticati, ma al momento questo è quello che mi è venuto in mente! Il tutto è in ordine ovviamente sparso!

Il meglio del 2009

Dirty Projectors - Bitte Orca
Neon Indian - Psychic Chasms
Phoenix - Wolfgang Amadeus Phoenix
Music Go Music - Expressions
The Antlers - Hospice
Dente - L'Amore Non E' Bello
Animal Collective - Merriweather Post Pavillion
The Pains Of Being Pure At Heart - The Pains Of Being Pure At Heart
Gus Gus - 24/7
The Xx - Xx

Il meglio del decennio

TV On The Radio - Dear Science (08)
Vinicio Capossela - Ovunque Proteggi (06)
Baustelle - Amen (08)
The Notwist - Neon Golden (02)
MGMT - Oracular Spectacular (07)
Vampire Weekend - Vampire Weekend (08)
Grace Jones - Hurricane (08)
The Knife - Deep Cuts (03)
Le Luci Della Centrale Elettrica - Canzoni Da Spiaggia Deturpata (08)
Offlaga Disco Pax - Socialismo Tascabile (06)
Sigur Ros - () (02)
Grandaddy - The Sophtware Slump (00)
Miss Kittin & The Hacker - First Album (01)
Justice - + (07)
Ariel Pink - Scared Famous (07)
The Swell Season (Glen Hansard & Markèta Irglòva) - The Swell Season (06)
The Postal Service - Give Up (03)
Vitalic - OK Cowboy (05)
Damien Rice - O (03)
Battles - Atlas (07)

One

12 gennaio 2010

Perché Devendra è Devendra




Devendra Banhart and the Grogs live @ Auditorium Parco della Musica, Sala Petrassi, Roma – 20 dicembre 2009

Non è facile trovare le parole adatte per uno come Devendra Banhart. Devendra è Devendra. Punto e basta. Fa un live da paura. Ti fa divertire. Ti emoziona. Ti fa sorridere, ridere e ti fa dimenticare tutto quello che non fa parte della musica, delle canzoni e del tuo corpo che vuole muoversi nonostante tutto. Un tutto dato dall’impossibilità di movimento in una sala fatta di comode poltrone vicinissime le une alle altre.

E certo, difficile negare che l’essere donna ha contribuito all’incantesimo. All’astrazione dal mondo circostante che ha preso mezza sala. Una specie di sindrome da innamoramento precoce che ha colpito l’intero pubblico femminile, ma, considerato l’entusiasmo e lo scrosciare degli applausi, ha investito a suo modo anche quello maschile.

Devendra Banhart, il ragazzo freak, il cantante weird-folk, lo zingaro. Ha travolto la composta Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma assieme ai Grogs, gruppo di virtuosi musicisti, che ci hanno deliziato, uno dopo l’altro, con dei pezzi extra, appartenenti ai rispettivi gruppi. Da quello del bassista fino al pezzo quasi hard-rock del batterista a fine del concerto.

Cappello di lana schiacciato sulla testa, barba decisamente più corta rispetto agli ultimi tempi, giacchetta scura e pantaloni chiari, con questo look da bravo ragazzo, il Nostro ha guadagnato il palco, ha salutato e attaccando subito con una trascinante “Long haired child”. La platea è ammutolita, dando conto solo al ritmo, ai piedi che pestavano impietosi sul pavimento e alle braccia in movimento autonomo. Una forza inspiegabile che si impadroniva anche del meno appassionato dei ballerini. Un’assurdità – assistere seduti a questo concerto – evidente a tutti. Da subito chiaro allo stesso Devendra, che ha ironizzato, chiedendo di accompagnare i pezzi con una bella danza dai posti a sedere.

Presa la chitarra ha proseguito con un pezzo leggero come “Baby” e poi avanti con “Shabop Shalom”, “Foolin”, “Angelika”. Intervallando e introducendo i pezzi con delle spiegazioni e dei piccoli racconti, fatti –dopo aver interrogato il pubblico su quale lingua preferisse – rigorosamente in spagnolo. Come per “Maria Lionza”, preceduta da un racconto sul brano in questione e una divertente gag su un presunto ragazzo “triste y borracho como mi”.

I brani si sono succeduti velocemente l’uno dopo l’altro, con il gruppo al completo alternato al solo Devendra. Prima alla chitarra per pezzi vecchi e incantevoli come “Little Yellow Spider” e “A Sight to behold”, poi al piano con “I remember”.

E poi di nuovo al centro del palco con la chitarra per “You can’t put your arms around a memory” di Johnny Thunders, che più che una cover è stata la prova ulteriore di una voce fuori dall’ordinario. Di una voce vibrante e potente, capace di cullarti e di lacerarti nel profondo in un soffio.

Devendra, un po’ indiano e un po’ sciamano freak, è riuscito ad offrire al suo pubblico un concerto di due ore in cui ha mescolato di tutto: dal folk alla psichedelia, dai ritmi caraibici al rock. La performance è stata talmente trascinate, che alla sua discesa dal palco per avvicinarsi alle prime file è corrisposta una rivoluzione della Sala Petrassi. Ai primi, che più o meno timidamente lo hanno seguito nelle danze sotto il palco – dopo una breve interruzione per il tentativo della sicurezza di sedare la rivolta – è seguita l’intera platea, in piedi per ballare tutte le canzoni e goderle davvero fino alla fine. Come per la penultima e attesissima “Carmensita”.

E questo era davvero un concerto tutto da ballare. Da ballare con una danza liberatoria, fanciullesca e senza regole come quella di Devendra Banhart. Per tornare bambini, almeno per una sera.

M.Mae

10 gennaio 2010

Mingusology, parte 3


Charles Mingus- THE CLOWN (Atlantic 1957)

Questo disco registrato nel 1957 fu in realtà pubblicato dall’Atlantic solo quattro anni più tardi (!), quando Mingus era già una stella luminosa nella costellazione del jazz.
Il lavoro si apre con Haitian Fight Song, uno dei capolavori del Mingus compositore e brano simbolo della sua furiosa tecnica al contrabbasso. Prendendo spunto dalla rivoluzione haitiana degli schiavi avvenuta nel 1791, che portò alla fondazione della prima repubblica nera nel 1804, Mingus realizza una composizione dinamica e aggressiva, chiara metafora della lotta di liberazione afroamericana. Il brano comincia con un’introduzione di contrabbasso che porta al celeberrimo riff blueseggiante (tra i più citati negli assolo dei jazzisti dediti a questo strumento). Il riff viene gradualmente rinforzato da tutti gli altri strumenti in un crescendo polifonico che sfocia nel tema principale. Ogni musicista prende gli assolo, ma al richiamo di contrabbasso si ritorna al riff iniziale. Jimmy Knepper al trombone è caldo e incisivo come non mai, Wade Legge al piano è elegante e malinconico, il sax alto di Curtis Porter (poi diventato Shafi Hadi) s’ispira al bebop ma profuma di blues, la dinamica batteria di Dannie Richmond fa da collante tra i vari solisti, passando con disinvoltura da un ritmo di marcia ad uno shuffle rhythm’n’blues. Ma il momento culminante del brano rimane l’assolo di contrabbasso così intensamente espressivo. E’ lo stesso Mingus a descrivere in maniera magistrale il suo intervento solistico: ”L’assolo che prendo in questo pezzo è frutto di una piena concentrazione. Non posso suonarlo nel modo giusto se non penso al pregiudizio, all’odio, alla persecuzione e a quanto tutto ciò sia iniquo. In esso c’è della tristezza e ci sono delle grida, ma c’è anche della determinazione. Quando finisco di suonare di solito penso: io gliel’ho detto.Spero che mi abbiano ascoltato”.
Il clima rimane incandescente con il successivo brano Blue Cee, un sentito blues dove spicca ancora il solismo aggressivo di uno scatenato Mingus.
Con Reicarnation Of A Lovebird i toni si fanno dolci e malinconici con la più bella composizione melodica scritta da Mingus. Il brano, commosso omaggio all’amico Charlie Parker (Bird), comincia con un’improvvisazione collettiva di citazioni parkeriane, per poi approdare, tramite un’introduzione pianistica, al meraviglioso tema principale. In questo pezzo i sentiti assolo di Hafi, Knepper e Legge mantengono un perfetto equilibrio tra libertà improvvisativa e rigorosa esigenza narrativa.
Il brano finale, che dà anche il titolo al disco, è figlio di un’epoca impegnata ad abbattere le barriere fra le varie arti, quando nascevano progetti di letteratura e musica jazz. La composizione è intercalata da parti recitate da Joan Shepherd. Mingus stesso spiega il progetto nelle note di copertina: “La storia…tratta di un clown che tentava di piacere alla gente, come la maggior parte dei musicisti jazz, ma che non piacque a nessuno, se non dopo morto”. Il pezzo, pur essendo interessante per la sua forza descrittiva, viene appesantito dalla parte recitata. Se fosse solo per questa composizione il disco rimarrebbe unicamente ricordato come testimonianza di un periodo storico. Invece la presenza di due delle gemme più preziose del pur ricco scrigno compositivo mingusiano, Haitian Fight Song e Reincarnation Of A Lovebird, pongono quest’opera tra le più importanti della sua carriera. Voto: 29/30
Massimo Daziani

6 gennaio 2010

Gli Ultimi saranno i primi…

Other Lives - Other Lives (tbd records 2009)
Come diceva giustamente Marco OfO Giappicchini, ci sono dei bei dischi che escono alla fine dell’anno (o che ci sono sfuggiti…) e che ingiustamente non vengono inseriti nelle classifiche fatte a metà dicembre. Proposta: la prossima volta facciamo uscire le top list a fine gennaio (e perché no a fine febbraio? Non dobbiamo necessariamente cadere nella frenesia modaiola delle classifiche veloci. La musica è una cosa seria e va gustata con calma…). Tra questi dischi ascoltati durante le vacanze natalizie c’è il debutto dei Real Estate, già celebrato dal buon Marco, e un altro esordio di tenue bellezza ad opera degli americani Other Lives. Si tratta di un disco dolce e malinconico, con strumentazione “quasi” classica, dove il piano e il violoncello la fanno da padrone. L’ugola di Jesse Tabish è l’altro elemento caratteristico del loro sound: una voce crepuscolare come la loro musica che rimanda a certe atmosfere tipiche del rock progressivo. E’ un disco sconsigliato a chi non ama le ballate finemente arrangiate: infatti la musica degli Other Lives si esalta proprio nei ritmi placidi di canzoni dove melodia e nostalgia vanno a braccetto. Si comincia con “Speed Tape”, un pezzo segnato da soavi aperture di piano e violoncello. Si prosegue con l’epica “Don’t Let Them”. “Black Tapes” è semplicemente una stupenda ballata pianistica carica di malinconia. Con “End Of The Year” i ritmi si accelerano leggermente, con un cambio ritmico di chiara ispirazione canterburiana. “E-Minor” è una ballata che ricorda i Renaissance di “Ashes Are Burning”. “Paper City” inizia con una chitarra acustica assassina, poi l’ingresso di tutti gli altri strumenti la trasforma in una meravigliosa canzone carica di emotività. “Matador” incanta con i suoi profumi di flamenco dovuti soprattutto agli interventi di una tromba mariachi. “It Was The Night” è ancora una ballata di diafana bellezza, come pure la successiva “How Could This Be”, caratterizzata da uno struggente pianoforte. “AM Theme” e “Epic” chiudono con eleganza classicheggiante un album di grande bellezza intimista. VOTO: 27/30

Massimo Daziani

2 gennaio 2010

Pazzeschi!

Tortoise live @ Circolo degli Artisti, Roma 25/11/2009


“Da Paura”, “Questi sono degli alieni”, “Ammazza come sonano”, “Da stasera posso attaccare la chitarra al chiodo”… Queste, cito alla rinfusa, sono le esclamazioni provenienti dal pubblico sentite tra una canzone e l’altra quando sul palco suonano i Tortoise. Senza fare troppi panegirici lo possiamo tranquillamente ammettere: questi ragazzi dal vivo sono semplicemente mostruosi. Si palesa difatti davanti ai nostri occhi quello che fino a questa sera era solamente ipotizzabile: i cinque ragazzoni di Cicago che portano i nomi di John McEntire, Doug McCombs, John Herndon, Dan Bitney e Jeff Parker nella vita hanno un solo e unico scopo che li accomuna: scandagliare in tutti i modi (i generi) possibili e con qualunque mezzo (strumento) a loro disposizione le infinite vie che portano al (post) rock. Trovato nel palco il luogo ideale per portare a termine la propria missione questo dream team composto da cinque polistrumentisti duttili e formidabili, ha dato vita a un ora e mezzo abbondante di ricerca musicale che non ammette repliche; un trip sonoro dove ogni elemento sul palco, lungi dal compiere un mero compitino, suona e si scambia in continuazione qualsiasi strumento gli capiti a tiro, per dimostrare che la musica non ha confini e traiettorie specifiche. La cellula di partenza è la ritmica. Le due batterie posizionate una di fronte all’altra in bella evidenza nel proscenio del palco ne sono prova tangibile e costituiscono l’intelaiatura di un suono coloratissimo e variegato che nasce proprio dalle combinazioni e dagli incastri dei due strumenti, spesso suonati all’unisono. Ma anche la maggior parte degli altri strumenti sono utilizzati per la loro valenza timbrica e percussiva, siano essi Moog, vibrafoni, xilofoni, tastiere e basso. La chitarra a colorire il tutto con qualche accordo rarefatto, messo nei punti giusti. L’elettronica, spesso preponderante nei dischi, viene invece centellinata a favore appunto di un sound sanguigno e “analogico” che nasce e si sviluppa dalla combinazione e dalla commistione di generi (dal prog al dub) per poi diventare unico e inimitabile. Come c’era da aspettarsi la scaletta premia l’ultimo “Bacons of Ancestorships" mettendo in secondo piano i gioielli provenienti da album come “Tnt” o “Tortoise”, ma questo ci è del tutto indifferente: avessero suonato anche un album intero di Nino D’Angelo saremmo rimasti lì, senza fiato, abbacinati e interdetti dalla forza di una musica che ha oggi valore di aggettivo.


OfO