31 ottobre 2010

Solari, Creative Collaborazioni

So Percussion + Matmos - Treasure State (Cantaloupermusic, 2010)

Non sono mai stato convito da jam session, collaborazioni, fusion di stile e neanche dalle cover, ma questo è un altro discorso.
Ricordo nei primi tempi dello scaricamento col mulo a fare nottate per riuscire a procurarmi Dave Groll che suona con i Motorhead o i Sonic Youth che avvicinano le chitarre ai beat dei Cypress Hill. Poi comincio a crescere e capisco che tali mescolamenti estremi sono validi solamente in taluni casi, casi in cui la parola magica può essere solamente una: Armonia. E allora passino pure Blackout di Method Man e Redman o, per tornare ad un genere un po' diverso, i duemila progetti portati avanti insieme da due mostri come Alva Noto e Ryuichi Sakamoto. L'ignominia, però, è dietro l'angolo e ne è esempio lampante la collaborazione tra Nobukazu Takemura e gli Zu dal titolo Identification with the enemy: A Key to the Underworld. Ascoltando questo disco ti viene voglia di fargliela ingoiare quella chiave pur di non farli tornare in superficie. Purtroppo esempi di fusion così brutte per gli occhi e per il cuore sono la prassi mentre di dischi che emulsionano sinergia musicale fra diversi artisti ne vengono fuori circa uno su diecimila.
Il primo impatto, venendo a conoscenza di Treasure State, è stato un po' difficile: forse scottato dall'ultima uscita del duo di San Francisco o in verità ignorante nei riguardi del passato lavorativo dei percussionisti newyorkesi (solo in seguito mi sono dedicato all'approfondimento attraverso la reiterazione dello stimolo musicale dal titolo Amid The Noise). Mettendo anche in conto che i consigli musicali di Of0, aka il guru di Notizie sullo Stato della Musica nell'età della Pietra, non mi trovano sempre d'accordo, i dubbi al primo ascolto della Brand New erano feroci come un gruppo di armadilli.
Gli armadilli sono però stati spazzati nell'ade insieme ad Identification with the Enemy e la pioggia di applausi provocata dal primo ascolto di Treasure State ha consacrato la collaborazione nel gotha della sublimazione del gusto auditivo.
Non saprei definire questo lavoro se non armonioso e stupefacentemente psicoattivizzante.
I Matmos stendono il loro impeccabile tappeto di suoni dove gli eclettici percussionisti pestano martelli e xilofoni. Il viaggio ha una vastità disarmante: dal Giappone imperiale alla Cina ottocentesca, dalla pioggia frenetica alle fiamme serafiche, dall'impenetrabilità oscura alla sfavillante freschezza.
So che sembrano le esternazioni psicotrope di un internato ma vi posso assicurare che troverete tutte queste sfumature nello stato del tesoro in cui le due formazioni hanno costruito il loro bastione. E vi assicuro che non hanno intenzione di mostrarvi le chiavi del sottosuolo!

28/30


Tòmmie

29 ottobre 2010

Rhythm And Blues Masters, Parte Seconda

John Legend And The Roots - Wake Up! - Columbia 2010. Qualcuno potrebbe obiettare : ma come, hai detto che non stai parlando del nu soul e poi mi recensisci uno dei suoi massimi rappresentanti? A quel qualcuno risponderei che il signor John Stephens, in arte Legend, mi aveva entusiasmato nel 2006 con un disco elegante e caldo come Once Again (Columbia) che dava fondate speranze di aver finalmente trovato un interprete capace di rinverdire i fasti della musica dell’anima. Poi il nostro aveva preso la deriva di un pop patinato che raffreddava i precedenti entusiasmi. Adesso John fa uscire questo disco insieme ai Roots, una delle realtà hip hop più interessanti degli ultimi 20 anni, diventati originali e noti anche perché suonano strumenti veri (certo che viviamo in un mondo veramente strano…). Il risultato di questa collaborazione è spettacolare e produce un autentico capolavoro di black music. Il progetto è nato durante l’esaltante campagna elettorale di Obama del 2008. L’idea era quella di riprendere brani soul degli anni 60-70 caratterizzati da forti tematiche sociali e politiche. In questo clima di ritrovata consapevolezza civile i nostri eroi sono rimasti fedeli anche al suono di quegli anni, sporcandolo con felici contaminazioni hip hop. I Roots suonano meravigliosamente bene (una menzione speciale al corposo drumming di ?uestlove), la voce di John non è mai stata così calda ed ispirata. Tutti i brani sono notevoli, ma mi piace ricordare una formidabile Hard Time che apre l’album come meglio non si potrebbe (introduzione vocale di Legend da chiesa battista, ritmi funky e innesti hip hop), la potente e declamatoria Our Generation, l’elegante Little Ghetto Boy, interpretata originariamente dall’immenso Donny Hathaway, gli incredibili e infuocati undici minuti di I Can’t Write Left Handed, scritta dal grande Bill Withers (con un funambolico assolo chitarristico di “Captain” Kirk Douglas , degno erede del mitico Eddie Hazel dei Funkadelic), un solare gospel come I Wish I Knew How It Would Feel To Be Free, dove l’usignolo Legend rende omaggio alla superba Nina Simone. E alla fine del disco John ci regala anche l’unico brano originale, Shine, elegante e soffusa ballata che fa la sua gran bella figura. New Soul back to the Roots!
Voto: 29/30

Aloe Blacc - Good Things - Stones Throw 2010. Anche il trentunenne Aloe Blacc sembra essere stato folgorato sulla via di Damasco del soul-funk anni 60-70, quando questa musica era la coscienza morale del ghetto nero. Ciò è tanto più evidente se si ascolta il suo esordio solista del 2006, dopo che il nostro aveva avuto un passato da rapper. Infatti Shine Through (Stones Throw) era un disco incerto, a metà fra ricordi hip-hop, derive nu soul e tentazioni pop latine. Qualche lampo di classe si intravedeva soprattutto nelle capacità vocali del nostro (come nella breve e minimale title track e nella ballata I’m Beatiful). Ma allora nessuno poteva prevedere una svolta così radicale. A dire la verità la recente splendida interpretazione di Billie Jean, suo tributo a Michael Jackson, resa come una ballata soul-blues , aveva fatto drizzare le orecchie a molti amanti della black music. E adesso, sotto l’ala protettiva degli ottimi produttori Truth & Soul, Aloe ci stende con un grande disco di soul music che si confronta coraggiosamente con i grandi maestri del passato. L’album si apre con un grande singolo, I Need A Dollar, caratterizzato da un’irresistibile piano ritmato; gustosa la funkeggiante Hey Brother con fiati assassini e una micidiale chitarra wha wha che fa tanto blaxploitation. Eccellente l’interpretazione vocale nella struggente soul ballad You Make Me Smile. Miss Fortune è il frutto intenso scaturito dall’incontro tra funky e reggae. Loving You Is Killing Me è un altro potenziale singolo. Incantevole il falsetto nell’elegante Life So Hard. Ma il vero tocco di classe è una versione deliziosa di Femme Fatale, che qui si trasforma in una dolce soul ballad alla Curtis Mayfield, avendo perso la decadente bellezza dell’originale. New Soul back to the Roots and Good Things are coming…
Voto: 29/30

Massimo Daziani

25 ottobre 2010

In viaggio (emozionale) con Bradford Cox

Deerhunter, Halcyon Digest (4AD, 2010)


I Deerhunter tornano con il quarto album, Halcyon Digest, prodotto insieme a Ben Allen, già mixing engineer del fantastico Merriweather Post Pavilion degli Animal Collective.

Ci sono vari motivi per cui la band di Atlanta è una delle realtà più interessanti nel panorama indie rock. Tanto per cominciare hanno dimostrato di avere fegato stravolgendo il proprio sound. Scelta coraggiosa, quella della sperimentazione per una band del sottobosco indie americano che ancora deve elaborare una vera e propria cifra stilistica. La domanda quindi nasce spontanea: i Deerhunter non sono stati ancora contaminati dalle regole dell'industria musicale dell'indie mainstream? Così sembrerebbe.
Halcyon Digest infatti segna un approccio nettamente diverso rispetto al passato. La mancanza di scariche di chitarra elettrica rende più variegata la tavolozza strumentale che si arricchisce di chitarre acustiche, percussioni elettroniche, banjo, arpa, armonie vocali e sassofono, creando una complessa stratificazione di suoni, sfumature e emozioni.
Altro motivo di interesse riguardo ai Deerhunter è il leader del gruppo, Bradford Cox, eterno outsider, dal fisico debilitato a causa della rara malattia da cui è affetto, la
sindrome di Marfan (piccola curiosità: anche Paganini e Rachmaninov ne erano affetti). Un'adolescenza infelice, trascorsa tra la solitudine della malattia e l'assenza dei genitori, lo ha spinto a rifugiarsi in un mondo fatto di musica in cui tutti i suoi tormenti possono prendere forma. In Halcyon Digest si alternano episodi di nera tristezza a incredibili slanci di gioia mista a speranza in un gran guazzabuglio di emozioni diverse ma complementari, ben interpretate da una voce intensa che, associata a quell'aspetto così malaticcio, sembra ancora più carica di sfumature

L'album inizia con le atmosfere amniotiche di
Earthquake che ricorda vagamente Teardrop dei Massive Attack, poi sale di ritmo e di umore con Don't Cry e con il folk-rock di Revival che, senza una vera e propria conclusione, sfocia nella delicatissima e dolcissima ballata Sailing. Ma immediatamente il disco cambia rotta con la sfavillante Memory Boy. Desire Lines ricorda terribilmente, solo per pochi secondi dell'intro, gli Arcade Fire ma poi, fortunatamente, prende una piega tutta sua e originale. Basement Scene è un sogno che prende le sembianze di un terribile incubo sulla propria morte e su quella degli amici. Solo il risveglio può esser d'aiuto "Dream/A little dream/About your friends/And their endings/Now I wanna wake up/I wanna wake up now". La malinconia del singolo Helicopter è smorzata dal piglio shoegaze di Fountain Stairs e dal rock alla Strokes di Coronado. Il disco si conclude con la bellissima He Would Have Laughed, dedicata a Jay Reatard, musicista morto a 29 anni per overdose.

C'è chi riesce a fare dischi che sono viaggi emozionali in cui condividere gioie e tristezze e ringrazio i Deerhunter per esserci riusciti.

Voto: 28/30

Eleonora Zeta

20 ottobre 2010

Sincera Crudeltà


MASSIMO VOLUME – Cattive Abitudini (la Tempesta dischi, 2010)

La realtà è molto più violenta della finzione. I Massimo Volume ritornano con un nuovo disco dopo una lunga assenza – anche se dall'estate del 2008 erano tornati all'attività live – e ci consegnano una serie di quadri di un realismo disarmante, crudele, rassegnato, a tratti rarefatto e come sempre molto letterario. In Cattive Abitudini le atmosfere tese si alternano a quelle dilatate : in brani come Coney Island – con un testo malinconico e bellissimo - Le nostre ore contate, Tra la sabbia dell'oceano, Mi piacerebbe ogni tanto averti qui, che inizia ricordando molto la stupenda La città morta, Egle Sommacal continua il suo raffinato e consueto lavoro di ricerca di sonorità pastose con accordi aperti e vagamente jazzati, arpeggi morbidi e lasciati scorrere poi sincopati e trattenuti sui cambi di ritmo.
Sulle aperture e le sfuriate elettriche le chitarre invece spingono, creando un suono saturo in cui si lasciano spazio vicendevolmente l'un l'altra. In tutti e due i registri le ritmiche seguono l'incedere delle chitarre creando groove che assecondano sia gli intrecci chitarristici sia le spinte distorte, in cui i riverberi si lasciano andare fino a lambire i confini del rumorismo noise. Bellissime le ruvide Robert Lowell, Litio e Fausto.

Si sente molto la poetica e il gusto del bellissimo Da qui ma Cattive Abitudini è probabilmente più immediato, sincero, profondo e nonostante ciò sembra essere un ideale e maturo punto di incontro tra il disco del 1997 e Club Privè – ultima pubblicazione in studio della band – del 1999. Emidio Clementi dipinge ritratti quotidiani di persone senza futuro in una società che si guarda allo specchio, ormai rassegnata per i propri errori e che aspetta di cadere nel precipizio senza speranza. Per tutti quelli che li aspettavano e che ascoltandoli provano una gran nostalgia, poetici, necessari. Bentornati!
29 / 30

Matteo Innocenti

19 ottobre 2010

Landscapes

Fennesz + Giuseppe La Spada: "Island - A Three month Jouney" live @ Palladium, Roma (17.10.2010)


Data la periodicità con la quale Christian Fennesz accorre a Roma per presentare i propri lavori, l'artista viennese sta indubbiamente diventato figlio adottivo della città eterna. Roma Europa Festival lo spazio deputato ad accoglierlo, il Palladium di Garbatella il salotto prescelto, sede di numerosi appuntamenti del Festival sperimentale.
Ad affiancare l'eclettico austriaco c'è Giuseppe La Spada, visual performer palermitano che vanta nel suo album di collaborazioni anche quella con Ryuchi Sakamoto, accompagnato nello storico concerto di Ground Zero del 2008.
I due pezzi da novanta, pronti a colpire a suon di immagini e drones i numerosi spettatori che si sono assiepati fra platea e galleria, vengono introdotti dalla delicata performance dei Lilies on Mars, gruppo vincitore dello speciale contest dell'ultima edizione di Roma Europa Festival.

Anche se appare leggermente fuori contesto, magari più in tono fra gli abiti e gli accessori radical chic di un Fanfulla (dove tra l'altro hanno suonato la sera precedente), l'esibizione del combo sardo/inglese regala guizzi noise-pop ad un ambiente che spesso appare ingessato e troppo contratto su se stesso. Lilies on Mars è un trio formato da due Front-women, Lisa Masia e Marina Cristofalo, che si equivalgono sul palco fra voce, chitarre e sintentizzatore e un percussionista, Matthew Parker, che dietro alle due ragazze sarde e alla sua batteria elettrica detta i tempi giusti, non troppo sfrenati, in qualsiasi condizione di difficoltà (anche quando - come è successo - il suo pad frana su se stesso, Mat continua a suonare con flemma da giocatore di bridge).
L'inizio del concerto è molto piacevole e si conclude con un pizzico di appetito lasciato dall'ultimo brano, dalle venature tipicamente glitch, suonato in collaborazione con Fennesz, quel The Seventh String vincitore del REW[F] 2009/10.

Mentre molti degli astanti si scannano per trovare nomi di band seminali che (im)probabilmente hanno dato vita al sound dei Lilies, ecco che ha inizio la seconda parte dello spettacolo, il clou della serata si materializza davanti a noi; le luci si abbassano e lo schermo si riempie d'immagini e colori. La chitarra austriaca di Christian Fennesz fa il suo ingresso in scena, gli orecchi della platea si sturano sin dal primo accordo.
La sperimentazione dell'artista è sempre molto piacevole e la calma con la quale macina suoni per mezzo di laptop e chitarra ha il solito incedere ipnotico, senza traiettorie specifiche. Il progetto visual-musicale si chiama Island - A Three month Jouney, viaggio sonico che si fa strada attraverso le immagini di tre isole molto diverse per conformazione, clima e asperità ma con un punto in comune: l'alta emozionalità dell'atmosfera.
Il percorso fra Islanda, Giappone e Sicilia per noi spettatori inermi dura circa un'ora, fra suoni distorti e immagini mozzafiato che si esaltano nella notevole minuziosità dei particolari; è sul dettaglio, sia sonoro che immaginifico, che l'happening si concentra, è la dove prende maggior forza e vigore. L'omogeneità fra il viaggio visivo e quello musicale sono perfetti, non puoi distrarti una attimo, ammiri onde e ghiacciai mentre le note sintetiche ti catapultano in geyser e scogliere boscose.
Questa è musica(?) liquida che mangia se stessa, scheggia impazzita che si fa ora brumosa (ovvero impervia) ora solare: spesso ritorna un arpeggio di chitarra più "narrativo" e melodico, vero e proprio leitmotiv, unico punto di appiglio in questo strazio musicale senza meta che non lascia scampo.

Esci interdetto e sconquassato e ti ritrovi a passeggiare per Garbatella, comunque sia soddisfatto, discutendo dei bei tempi andati: di quando in una sola stagione nella capitale si poteva assistere a concerti di Mouse on Mars, Terry Riley, Matmos, Alva Noto, Nobukazu Takemura e altri protagonisti della scena sperimentale. Oggi invece bisogna solamente aspettare e sperare per assistere a spettacoli sopra le righe come quello di questa sera che ti rimette in pace con i tuoi sensi.
28/30

Tòmmy + OfO

15 ottobre 2010

Rhythm And Blues Masters

Non stiamo parlando del sintetico mondo del nu soul, tanto per intenderci quello dei vari Maxwell, Erykah Badu, Macy Gray (bravi artisti, per carità) o dell’astro nascente Janelle Monae (il cui recente The ArchAndroid è comunque un bel disco), ma semplicemente della musica dell’anima…

JJ Grey & Mofro – Georgia Warhorse - Alligator 2010. JJ Grey & Mofro sono una delle realtà più esaltanti del panorama r&b a stelle e strisce. Sono quasi 10 anni che fanno dischi (prima solo a nome Mofro) , di cui gli ultimi tre sono dei capolavori nel loro genere: mi riferisco a Country Ghetto del 2007, Orange Blossoms del 2008 e il recente Georgia Warhorse di cui parleremo adesso, tutti pubblicati dalla Alligator. JJ Grey è un ottimo compositore e la sua band ha un groove micidiale. Eppure, soprattutto nel nostro paese, non se li fila nessuno, non compaiono mai nelle classifiche dei migliori dischi di fine anno. Misteri della critica musicale nostrana… Nel mio piccolo vedrò di rimediare a questa imperdonabile mancanza. Cominciamo con il descrivere il sound di questa band proveniente dalla Florida. Compito non semplice perché il nostro JJ è un vero eclettico e prepara una ricetta sonora piena di profumati ingredienti: il soul più grasso della Stax amalgamato a quello più sofisticato della Motown, un sapido funky , il melmoso swamp blues insaporito con gli aromi del Chicago style e un pizzico di southern rock. La statura dello chef Grey è tale da riuscire a mescolare ad arte tutte queste fragranze musicali, inventandosi piatti sonici prelibati e originali, anche se legati alla tradizione. L’ultima recente fatica discografica conferma questa eccellenza artistica e si pone come summa della sua estetica musicale, essendo a metà tra il sound ruspante di Country Ghetto, più southern e swamp e quello sofisticato di Orange Blossom, ispirato all’elegante soul di Detroit. Vi troviamo così brani dall’incedere funky (Diyo Dayo, Hide And Seek, Slow Hot & Sweaty), potenti swamp rock (All), energici ritmi soul (pensiamo alla bella The Sweetest Thing, che profuma di Muscle Shoals grazie anche all’apporto vocale di Toots Hibbert), canzoni spruzzate di blues (The Hottest Spot In Hell, Georgia Warhorse) e soprattutto splendide ballate, vera specialità della casa (l’intensa King Hummingbird, la dolce Beautiful World, la stupenda Lullaby che, grazie anche alla slide del grande Derek Trucks, vira verso un crescendo blues). Ma c’è una soul ballad che merita una descrizione a parte, essendo il momento più alto dell’album: Gotta Know. Come ci ha insegnato sua eminenza Otis Redding, la canzone comincia con solo piano e arpeggio di chitarra elettrica, con la voce di JJ calda e rauca al punto giusto. L’entrata contemporanea dell’organo e della batteria è spettacolare. Il pathos si alza ancora di più con l’ingresso dei fiati (inevitabili i brividi sulla schiena). E quando la cerimonia del reverendo Grey è al massimo del suo climax, un assolo assassino di sax ci fa vedere definitivamente la luce. Un brano capolavoro degno dei grandi padri del soul e un disco che entra di corsa nella mia top ten 2010.

Voto: 29/30


Mavis Staples - You Are Not Alone - Anti 2010. La grande Mavis incontra Jeff Tweedy, ormai in perenne stato di grazia, che le produce uno splendido album di black music. Il leader dei Wilco ha avuto soprattutto il merito di optare per un’essenzialità degli arrangiamenti (ascoltare You Are Not Alone, splendida ballata scritta proprio da Jeff, per credere), qua e là sporcati da qualche energico intervento di chitarra elettrica . La voce profonda e rauca della Staples (70 anni portati meravigliosamente) è sempre al centro della scena, ma senza eccesso di virtuosismi , per sottolineare il feeling di una musica che prende a piene mani dallo sterminato tesoro della tradizione gospel (In Christ There Is No East Or West, Creep Along Moses, un "gospel rock" da brividi, I Belong To The Band del mitico Reverendo Gary Davis e Wonderful Savior meravigliosamente cantata a cappella). Mavis non si dimentica dell’immenso padre, Roebuck "Pops" Staples, riproponendo le sue Don’t Knock, Downward Road e una spettacolare versione di Too Close /On My Way To Heaven che, in poco più di 5 minuti, tocca tutte le corde della black music, passando con fluida disinvoltura dal blues al soul, tramite il feeling del gospel. Nel disco ci sono anche ottime covers di alcuni miei miti musicali: Losing You di Randy Newman, Wrote A Song For Everyone di John Fogerty, qui resa come un pezzo della Band e uno dei brani più belli scritti da quel genio musicale che risponde al nome di Allen Toussaint, ovvero Last Train, in una versione asciutta tra funky e rock. Motivi in più per amare questo disco, metterlo nel vostro lettore CD e ascoltarlo a ripetizione. Hallelujah, I just love her Soul…

Voto: 28,5/30



Massimo Daziani

9 ottobre 2010

Fathers and Sons

Fathers And Sons

Black Mountain – Circolo Degli Artisti – Roma , 01 ottobre 2010
Venerdì primo ottobre arrivo stanco e affannato al Circolo, dopo una settimana di duro lavoro, duecento chilometri di autostrada e il solito stressante giro infinito per cercare un buco di parcheggio. Così mi perdo anche il primo pezzo del concerto dei Black Mountain… Il locale è (come sempre) pieno all’inverosimile, la temperatura elevata e il tasso di umidità degno di Saigon. Possibile che si debba ascoltare la musica in queste condizioni? Insomma ce n’è di motivi per essere incazzati! Ma i ragazzi sul palco ci sanno fare e stanno saccheggiando il loro recente ottimo album Wilderness Heart (Jagjaguwar). Cerco allora di astrarmi dall’atmosfera irrespirabile, mi appoggio vicino alla porta per prendere qualche refolo d’aria (puntualmente escono pallidi e sconvolti appassionati con la pressione bassa..), chiudo gli occhi e mi godo ottime versioni di Let Spirits Ride e Rollercoaster. La base ritmica è precisa, Amber Webber si dimostra una buona vocalist, Jeremy Schmidt con l’organo dà il giusto tocco alla Deep Purple e Stephen McBean è l’indiscusso maestro di cerimonia. La band riesce a creare una credibile atmosfera da deja vu primi anni 70, senza rinnegare il presente. Bravi.
Voto: 28/30

Steve Winwood - Auditorium Parco della Musica, Sala S. Cecilia - Roma, 03 ottobre 2010
Come potevo mancare al concerto dell’enfant prodige del rock, di una delle voci più nere della British Invasion (leggi Spencer Davis Group), del leader degli immensi Traffic, dell’uomo che ha scritto Gimme Some Lovin, I’m A Man, Can’t Find My Way Home, Dear Mr. Fantasy, che ha partecipato alle sessions di Electric Ladyland e mitologia rock discorrendo? Infatti sono già assiso nella sala di Santa Cecilia alle 20 e 55. L’attesa è poca perché dopo una manciata di minuti entrano sul palco gli ottimi musicisti della band: Davide Giovannini alla batteria, Tim Cansfeild alla chitarra, Satin Singe allle percussioni e Paul Booth al sassofono ; quando compare Steve e si accomoda davanti al suo vecchio organo Hammond, parte un sentito applauso del pubblico. Alla faccia dei suoi sessantadue anni Winwood ha ancora una voce che dà i brividi. A dire la verità forse un basso e un ottone in più non sarebbero guastati, poi il suono non è dei migliori: praticamente non si sente la chitarra di Cansfeild e anche l’organo di Winwood fa i capricci. Ci vorranno una ventina di minuti prima che gli impacciati tecnici del suono riescano a cavare il ragno dal buco. La versione di Can’t Find My Way Home con Steve alla chitarra invero è un po’ moscia, soprattutto in fase di assolo chitarristico (Winwood non è proprio un virtuoso di questo strumento…), ma il brano è così bello e la sua voce così evocativa che gli perdoniamo il confronto perso con il celebre solo di Clapton. Buona la versione di Empty Pages, ottima la resa di un’intensa The Low Spark Of High Heeled Boys, applauditissima la celebre Higher Love, non male una minimale Dear Mr. Fantasy (con Steve alla chitarra accompagnato solo dalla batteria di Giovannini e da Paul Booth all’ Hammond). Ma il meglio di sè il signor Winwood lo dà con i suoi pezzi più antichi, sfoderando una spumeggiante versione di I’Am A Man e una poderosa Gimme Some Lovin. Alla fine uno dei padri di tanti ragazzi che oggi si rifanno al sound degli anni a cavallo fra 60 e 70, suonerà generosamente per ben due ore, senza atteggiamenti da rock star, con un’attitudine da onesto artigiano di quella musica che abbiamo amato di più. Un vero classico .
Voto: 28/30
Massimo Daziani

7 ottobre 2010

La Cantina del Rock su Radio Popolare

It's Alive, It's Alive. It's alive and It's Back on Radio!
Finalmente le onde radio modulate, non solamente quelle telematiche, tornano in cantina per soddisfare la sete di Rock and Roll d'annata che di andare all'aceto non ci pensa proprio.
Torna sotto i riflettori prestigiosi di Radio Popolare Roma lo storico programma del mattatore Roberto Colella (per noi tutti Wolfman Bob): The Cellar - La cantina del Rock.
Il programma era scomparso per un paio d'anni causa brutte storie burocratiche (meglio non approfondire) che hanno portato alla chiusura di Radio Facoltà di Frequenza 99.4 FM prima radio universitaria d'Italia che aveva la sua sede nei locali dell'Università di Siena. Il geniale conduttore del programma, però, non si era dato per vinto facilmente continuando a trasmettere dal suo blog puntate sempre piacevoli e fuori dal canovaccio che il main stream continua quotidianamente a propinarci.
La cantina del Rock è un programma storico che ha trasmesso per ben 111 volte ottima musica proveniente da umide sale di registrazione situate nei sotterrane di fumosi club di tutto il mondo.
Entrato dritto nei libri di storia il pomeriggio in cui The Cellar trasmise interamente il lato A di Dream Weapon vinile degli Spacemen 3 registato nel Watermans Art Center di Brentford.
Un occhio sempre attento a gruppi emergenti, etichette indipendenti, incisioni sconosciute e pietre miliari di quel Rock and Roll che ha tanti nomi ma che sa farsi seguire da orde di scalmanati che più che passione musicale lo considerano stile di vita.
La scaletta non la conosco ma posso stare sicuro che sarà diretta verso l'inferno in un viaggio fantastico.
L'appuntamento è alle 6.30 pm sulle frequenze di Radio Popolare Roma (103.3 FM) o su internet. Per la nuova edizione di un programma che appassionerà i neo assetati di note fresche e non lascerà a bocca asciutta nemmeno i più esigenti cultori del genere.
Pronti a raggiungere il sottosuolo con The Cellar: the Underground Sound.

Tòmmie

5 ottobre 2010

Scent of a Woman, Alive


Joanna Newsom - Auditorium Parco della Musica, Sala Sinopoli - Roma, 28 settembre 2010

Dopo l’esibizione monocorde del menestrello folk Alasdair Roberts (a sua discolpa bisogna dire che all’Auditorium ormai è diventata una pessima consuetudine far esibire l’artista spalla con le luci accese e mentre il pubblico si accomoda a sedere…) rimane illuminata l’imponente arpa dalle corde arcobaleno. Arriva l’accordatore , passano ancora altri minuti che alimentano una vibrante impazienza nel pubblico; alla fine verso le 21,40 finalmente sale sul palco la piccola, sorridente Joanna dalle bionde trecce, accompagnata da Ryan Francesconi (arrangiamenti, strumenti a corda e flauti) e Neal Morgan (percussioni). Con questo combo ridotto si aprono le danze: una splendida versione di The Book Of Right On, brano presente nel primo album della nostra, The Milk-Eyed Mender (Drag City 20004). Joanna abbraccia il suo titanico strumento e lo doma con stupefacente padronanza, mentre Francesconi e un concentratissimo Morgan partecipano al flusso musicale con interventi strumentali minimali. Alla fine del pezzo si libera un lungo e sentito applauso, mentre entrano in campo gli altri musicisti della band: due violiniste (Veronique Serret e Mirabai Peart) e un trombonista (Andrew Strain). Con il gruppo al completo si cominciano a riproporre anche alcuni dei brani che compongono l’ultima eccellente fatica discografica di Joanna, quel Have One On Me (Drag City 2010) da me abbondantemente celebrato in fase di recensione a marzo. Per la gioia delle nostre orecchie (e delle nostre menti) ascoltiamo l’arpa della Newsom in Have One On Me, Kingfisher,Go Long, Jackrabbits (bis in solitario, rovinando i piani dei simpaticoni dell’Auditorium che avevano già acceso le luci e messo la musica di sottofondo…) e il suo dolce pianismo in Easy, Soft As Chalk, Good Intensions Paving Co. (ottima versione con la partecipazione vocale degli altri musicisti e un fantastico Morgan alle percussioni). Durante l’esecuzione dei brani c’è una silenziosa e rispettosa attenzione del pubblico; mi accorgo di essere così concentrato sulle sfumature degli interventi strumentali, sulle funamboliche evoluzioni vocali di Joanna, che alla fine di ogni pezzo sono contratto e l’applauso appassionato mi serve anche per sciogliere i miei muscoli in tensione. Questo succede quando si partecipa ad un’esperienza sonora così coinvolgente: un’ulteriore conferma della statura superiore di un’artista vera.

Voto: 29/30

Massimo Daziani

3 ottobre 2010

Visual concert al Palladium: Sbiadita Prevedibilità


Ci sono serate in cui ti presenti davanti al luogo dove assisterai alla performance in questione e ti aspetti qualcosa in particolare, perché conosci gli artisti, il genere musicale, il canovaccio che solitamente segue questo genere di serate ma come in ogni occasione ti senti pronto ad essere stupito, piacevolmente stupito, perché la musica serve proprio a questo.
Passeggio verso il Palladium dove vedrò Visual Concert: un piatto musicale che dovrebbe unire composizioni colte ed installazioni visive che accompagneranno l'ascolto in maniera quasi impercettibile. Questo è ciò che mi aspetto ma dentro di me spero in qualcosa di più, in qualcosa che mi stupisca come ogni volta che prendo posto sulle poltrone colorate del Teatro di Garbatella.
Con questa voglia latente entro, mi siedo e guardandomi in giro ascolto la voce fuori campo che dà indicazioni sullo svolgersi della serata: "Progetto Visual Concert con musiche di Kaija Saariaho e Jean-Baptiste Barrière della durata di 75 minuti con un intervallo di 10. Nel pregarvi di spegnere i cellulari vi auguriamo un buon ascolto".
"Eccoci. Ci Siamo. Sono Pronto."
La prima parte è dedicata a tre composizioni di Kaija Saariaho, che attraverso il connubio di musica per solisti e video accolgono gli spettatori nell'ingresso della performance. Petals è il primo passo nella serata, con Vittorio Ceccanti che col suo Violoncello graffia un po' le tende del teatro ma senza troppa convinzione. Il secondo brano è Changing Lights, musica per violino (Duccio Ceccanti) e soprano (Maria Elena Romanazzi), con video in stile cielo karaoke. Ultimo pezzo della prima parte è Six Japanese Gardens per le percussioni di Antonio Caggiano che si piazza dietro ai suoi timpani con fare di colui che stupirà la folla mentre sullo schermo alla sua destra passano immagini di stagni e ninfee comuni agitate dal ritmo del musicista. All'intervallo mi blocco a pensare: " in fin dei conti non è male, però…si può fare di più. Dai magari il meglio deve ancora venire".
La seconda parte inizia con un'idea molto particolare di Jean-Baptiste Barrière, colui che ha curato oltre a questa opera tutte le immagini dello spettacolo, dal nome Violance, riproposizione in musica ed immagini dell'episodio biblico della Strage degli Innocenti. La voce narrante è quella di un bambino che in francese racconta questa storia ispirata al vangelo di Matteo, al quadro di Pieter Bruegel il vecchio e alla poesia di Maurice Maeterlinck. Le parole sono accompagnate da immagini di boschi innevati e da un violino straziato che ne inframmezza le partiture.
Il gran finale è Lichtbogen sempre della compositrice finlandese Kaija Saariaho che attraverso la musica della Contempoartensemble e le proiezioni del solito Jean-Baptiste Barrière rappresenta le evoluzioni visive e sonore dell'aurora boreale.
Alla fine della serata mi ritrovo a fare i conti con un giudizio abbastanza contrastante: bella musica, musicisti di spessore, proiezioni video rispettabili. Tutto però troppo distaccato, freddo, poco omogeneo e soprattutto il sapore di qualcosa che poteva generare una esplosione di colori ma che si è invece tradotto in un semplice azzurro cielo, sicuramente rilassante, ma molto poco emozionante.
Ecco, forse proprio questo è il punto. Ho assistito a uno spettacolo dagli standard validi ma con pochissimi picchi di stupore come sarebbe lecito aspettarsi nello svolgimento di un festival sperimentale come il RomaEuropa. Conoscendo l'evoluzione della video arte e della visual music e mi sarei aspettato una performance sullo stile dello Spectra di Ryojo Ikeda o di 555 Kubic, naturalmente nel limite di una serata in teatro.
Invece mi sono ritrovato intrappolato in un canovaccio che seguiva pedissequamente le regole di uno spettacolo da scuola di musica per artisti anziani e finti colti con nessuna digressione, divagazione sul tema o il minimo esercizio di stile, né tanto meno uno straccio di amalgama fra gli ingredienti.
Semplicemente compitino, preso e portato a termine con un finale da applausi scroscianti dal sapore di "È così che si fa?"

Tòmmy