19 gennaio 2010


Mingusology, last but not least

Ho cercato di celebrare il grande Mingus per il trentennale della sua morte. Ho recensito tre suoi capolavori: “Phitecanthropus Erectus”, “The Clown”, “Mingus Ah Um”. Ma questo 2009 è ormai finito ed io avrei ancora tanti dei suoi meravigliosi dischi da consigliare. Non mi resta che stilare una sintetica carrellata di altre perle del favoloso tesoro del Corsaro Mingus…

Tijuana Moods (RCA 1957). E’ l’opera più espressionista di Mingus. Con le sue composizioni, caratterizzate dalla consueta veemenza interpretativa, l’autore ci guida per le colorate strade della cittadina Messicana al confine con gli Stati Uniti. Su tutti i brani spicca il capolavoro“Ysabel’s Table Dance” con cui Mingus riesce magistralmente a tradurre in musica l’atmosfera di una bettola fumosa dove gli avventori alticci seguono le evoluzioni di una ballerina di flamenco. Il contrabbasso di Mingus trascina i musicisti (tra cui spiccano un giovane Jimmy Knepper al trombone, l’ottimo Clarence Shaw alla tromba e l’immancabile Danny Richmond alla batteria) verso una danza esotica e sensuale impreziosita dall’uso di nacchere e vocalizzi. La casa discografica non riconobbe la grandezza di questa opera che anticipava in qualche modo sia la rivoluzione modale che l’ispirazione etnica di tanto jazz a venire e incredibilmente fu pubblicata solo cinque anni dopo!Genialità e creatività incompresa. VOTO: 30/30

Blues & Roots (Atlantic 1959). Questo disco insieme a “Oh Yeah” non dovrebbe mai mancare in una collezione di musica afroamericana. Infatti Mingus in questi album compie un‘incredibile operazione culturale: unire lo swing, l’improvvisazione, le poliritmie, in una parola sola il jazz, alla popular music nera che va dalle negro ballad, al blues, al gospel, fino al multiforme universo del rhythm and blues. Brano simbolo di questo ritorno alle radici, vera rivoluzione estetica mingusiana in nome della tradizione popolare nera, è “Wednesday Night Prayer Meeting”, in cui il nostro riesce a ricreare musicalmente l’atmosfera incandescente della cerimonia di una chiesa santificata. Nel brano rivivono moanings (gemiti), urla d’incitazione, battiti di mani e la possessione di un fedele (magistralmente “descritta” dall’ assolo bluesy del grande Booker Ervin). VOTO: 30/30

The Complete Candid Recordings (Mosaic 1989). Sono tutte le registrazioni di Mingus avvenute nell’autunno del 1960 per la Candid, etichetta indipendente che ebbe vita brevissima. In questi brani compare il geniale Eric Dolphy al sax alto e Ted Curson alla tromba. Soprattutto in quartetto con il fido Richmond, Mingus sa essere grande band leader, facendo uscire il meglio dai suoi musicisti. Particolarmente preziosa è una versione non censurata di “Fables Of Faubus”. La grandezza di Dolphy si esprime con tutta la sua libertà interpretativa in una splendida versione di un classico come “Stormy Weather”. VOTO: 29/30

Mingus At Antibes (Atlantic 1960). In realtà questo concerto, registrato al Festival Jazz di Antibes il 13 luglio del 1960, è stato pubblicato solo 16 anni dopo. Mingus guida i quattro musicisti (Dolphy, Ervin, Curson e Richmond) in maniera magistrale. Ne esce fuori un live infuocato. VOTO: 30/30

Oh Yeah (Atlantic 1961). Ecco l’altro disco che continua il discorso intrapreso da “Blues & Roots”. Qui abbiamo, se possibile, un Mingus ancora più vicino alla cifra stilistica del gospel e del blues. Egli siede al pianoforte e canta con voce rauca e energica dei blues come “Hog Calling Blues”, “Devil Woman” e “Oh Lord Don't Let Them Drop That Atomic Bomb On Me” o un brano di ispirazione gospel come “Ecclusiastics”. Orfano di Dolphy, Mingus trova un eccellente Roland Kirk da affiancare allo stile caldo di Booker Ervin. VOTO: 29/30

The Black Saint And The Sinner Lady (Impulse1963). Da molti considerato il suo capolavoro. Effettivamente è un’opera meravigliosa che profuma delle suite ellingtoniane, anche se nella scrittura e nel modo di concepire la musica è intimamente mingusiano. Si tratta di 6 movimenti che in qualche modo sono legati tra loro, spesso da motivi che costantemente ritornano. La presenza di 11 musicisti (anche un chitarrista flamenco come Jay Berliner) ricrea atmosfere da big band; l’uso creativo dello studio di registrazione (montaggio di frammenti e utilizzo delle sovraincisioni) rende musicalmente compatta un’opera originale, moderna e unica di un’artista al culmine della sua ispirazione. VOTO: 30/30

Changes One e Changes Two (Atlantic 1974). Dopo un periodo di appannamento creativo, dovuto ai suoi sempre più frequenti problemi psichici, Mingus ritrova nuova linfa vitale mettendo su una formazione di giovani e geniali musicisti come Don Pullen al piano, George Adams al sax tenore, Jack Walrath alla tromba.Unico elemento sopravvissuto dei gruppi passati è l’immancabile Danny Richmond. Con questa strepitosa band Mingus incendia i Festival Jazz di mezzo mondo e scrive nuove pagine musicali di intensa bellezza. La massima testimonianza discografica di questa rinascita artistica sono questi due album. Tra nuove composizioni (come la romantica “Sue’s Changes”) e veementi riproposizioni di classici del passato (“Orange was the color of her dress then blue Silk” e “Devil Blues”), Mingus si dimostra ancora interprete e compositore superbo.VOTO: 30/30 Altri Ascolti: Mingus Dinasty (Columbia 1959) 27/30. Mingus Revisited (Mercury 1960) 27/30. Money Jungle, con Ellington e Max Roach (UA 1962) 30/30. Mingus, Mingus, Mingus, Mingus, Mingus (Impulse 1963) 28/30. Reincarnation Of A Lovebird (Prestige 1970) 27/30. Mingus Moves (Atlantic 1973) 27/30. Three Or Four Shades Of Blues (Atlantic 1977). 27/30


Massimo Daziani