12 gennaio 2010

Perché Devendra è Devendra




Devendra Banhart and the Grogs live @ Auditorium Parco della Musica, Sala Petrassi, Roma – 20 dicembre 2009

Non è facile trovare le parole adatte per uno come Devendra Banhart. Devendra è Devendra. Punto e basta. Fa un live da paura. Ti fa divertire. Ti emoziona. Ti fa sorridere, ridere e ti fa dimenticare tutto quello che non fa parte della musica, delle canzoni e del tuo corpo che vuole muoversi nonostante tutto. Un tutto dato dall’impossibilità di movimento in una sala fatta di comode poltrone vicinissime le une alle altre.

E certo, difficile negare che l’essere donna ha contribuito all’incantesimo. All’astrazione dal mondo circostante che ha preso mezza sala. Una specie di sindrome da innamoramento precoce che ha colpito l’intero pubblico femminile, ma, considerato l’entusiasmo e lo scrosciare degli applausi, ha investito a suo modo anche quello maschile.

Devendra Banhart, il ragazzo freak, il cantante weird-folk, lo zingaro. Ha travolto la composta Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma assieme ai Grogs, gruppo di virtuosi musicisti, che ci hanno deliziato, uno dopo l’altro, con dei pezzi extra, appartenenti ai rispettivi gruppi. Da quello del bassista fino al pezzo quasi hard-rock del batterista a fine del concerto.

Cappello di lana schiacciato sulla testa, barba decisamente più corta rispetto agli ultimi tempi, giacchetta scura e pantaloni chiari, con questo look da bravo ragazzo, il Nostro ha guadagnato il palco, ha salutato e attaccando subito con una trascinante “Long haired child”. La platea è ammutolita, dando conto solo al ritmo, ai piedi che pestavano impietosi sul pavimento e alle braccia in movimento autonomo. Una forza inspiegabile che si impadroniva anche del meno appassionato dei ballerini. Un’assurdità – assistere seduti a questo concerto – evidente a tutti. Da subito chiaro allo stesso Devendra, che ha ironizzato, chiedendo di accompagnare i pezzi con una bella danza dai posti a sedere.

Presa la chitarra ha proseguito con un pezzo leggero come “Baby” e poi avanti con “Shabop Shalom”, “Foolin”, “Angelika”. Intervallando e introducendo i pezzi con delle spiegazioni e dei piccoli racconti, fatti –dopo aver interrogato il pubblico su quale lingua preferisse – rigorosamente in spagnolo. Come per “Maria Lionza”, preceduta da un racconto sul brano in questione e una divertente gag su un presunto ragazzo “triste y borracho como mi”.

I brani si sono succeduti velocemente l’uno dopo l’altro, con il gruppo al completo alternato al solo Devendra. Prima alla chitarra per pezzi vecchi e incantevoli come “Little Yellow Spider” e “A Sight to behold”, poi al piano con “I remember”.

E poi di nuovo al centro del palco con la chitarra per “You can’t put your arms around a memory” di Johnny Thunders, che più che una cover è stata la prova ulteriore di una voce fuori dall’ordinario. Di una voce vibrante e potente, capace di cullarti e di lacerarti nel profondo in un soffio.

Devendra, un po’ indiano e un po’ sciamano freak, è riuscito ad offrire al suo pubblico un concerto di due ore in cui ha mescolato di tutto: dal folk alla psichedelia, dai ritmi caraibici al rock. La performance è stata talmente trascinate, che alla sua discesa dal palco per avvicinarsi alle prime file è corrisposta una rivoluzione della Sala Petrassi. Ai primi, che più o meno timidamente lo hanno seguito nelle danze sotto il palco – dopo una breve interruzione per il tentativo della sicurezza di sedare la rivolta – è seguita l’intera platea, in piedi per ballare tutte le canzoni e goderle davvero fino alla fine. Come per la penultima e attesissima “Carmensita”.

E questo era davvero un concerto tutto da ballare. Da ballare con una danza liberatoria, fanciullesca e senza regole come quella di Devendra Banhart. Per tornare bambini, almeno per una sera.

M.Mae